Capitolo 9: 𝒍𝒂 𝒕𝒂𝒗𝒐𝒍𝒂 𝒓𝒐𝒕𝒐𝒏𝒅𝒂.

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Erano quasi le sette e, guardando i volti degli invitati intorno a noi, pensai che fossero arrivati quasi tutti ormai. Alcune persone si erano già sedute, forse stanche di aspettare il festeggiato. Vagammo tra figure conosciute e alberi.

«Quindi...» disse Ginevra con malizia. «Non parliamo di quello che è appena successo?»

«Esatto.»

«Dai!» mi strattonò, costringendomi a fermarmi. «Non dovremmo festeggiare? Finalmente i miei cugini ti parlano e tu che fai? Li insulti!»

Alzai gli occhi al cielo. «Non sono un animale domestico» risposi, ripugnata alla sola idea di correre di nuovo da loro. «Se i tuoi cugini decidono, dopo anni passati a trattarmi da schifo, di tornare da me e all'improvviso fingere che io sia parte della loro famiglia, non ho alcune intenzione di accettarlo senza dire niente.»

Feci scorrere lo sguardo sul giardino, cercando le figure familiari dei ragazzi di cui stavamo parlando. «E poi» continuai, «questa situazione mi puzza. Non è possibile che abbiano cambiato il loro comportamento da un giorno all'altro. È successo qualcosa.»

Ginevra abbassò lo sguardo e il suo volto si incupì. «Non ci avevo pensato... Sicuramente centra qualcosa lui. Forse li ha minacciati?»

«Perché dovrebbe costringerli a trattarmi come un essere umano? Non gli è importato per anni.» Non gli era mai davvero importato di me. «Perché ora?»

Sospirai, già stufa di quella situazione.

«L'unico motivo per cui mi mantiene è perché è ancora ossessionato da mia madre» riflettei a voce alta.

Mia nonna mi aveva sempre raccontato che quando mia madre era giovane, lui era stato ossessionato da lei a lungo. Quando avevano iniziato a uscire in gruppo insieme, lui si comportava con gelosia e prepotenza, arrivando persino ad aggredire chi la infastidiva. Mia madre, nelle occasioni in cui mia nonna parlava di lui o del mio defunto padre, restava in silenzio, le labbra sigillate in una linea dritta e lo sguardo rabbuiato.

Io avevo interpretato il suo atteggiamento come la sua incapacità di rivolgere parole negative all'uomo che l'aveva aiutata dopo la morte di mio padre. Ma se lei avesse mai ricambiato le sue emozioni, si sarebbe dovuta trovare lì con me quel giorno. Invece, era da qualche parte a fare chissà cosa con non si sa chi.

«Che uomo miserabile!»

Puntai lo sguardo su Ginevra. La sua espressione era tornata aggressiva, piena di odio e io sentii la preoccupazione tornare.

«Non fare niente di stupido oggi, per favore.» Sperai che ascoltasse la mia supplica.

Ricambiò la mia occhiata e fu sul punto di rispondermi, ma il rumore di alcune campanelle portò la nostra attenzione alla porta della villa, che alcuni camerieri stavano spalancando.

Era arrivato.

Flavio Aureliano Nobili uscì trionfante dalla sua abitazione, mentre la folla si accendeva in un applauso entusiasta. Era un'usanza neomida applaudire il festeggiato, che doveva essere l'ultimo ad arrivare alla festa. Chiunque si fosse mostrato dopo, non sarebbe stato accettato.

Al suo seguito, stavano sfilando le sue concubine. Mia madre non aveva mai camminato con loro, nonostante tecnicamente dovesse farlo. Le uniche madri che non erano presenti, oltre a lei, erano quella di Jackson, che viveva a Hong Kong, e quella di Stephen, morta anni prima.

Lo osservammo camminare e pavoneggiarsi.

Il capofamiglia Nobili era un uomo sui cinquant'anni molto alto. I suoi capelli biondi erano sempre ordinati e mai più lunghi di metà collo. Il suo aspetto era sempre curato nei minimi dettagli, partendo dalla barba rasata. I suoi figli avevano ereditato da lui la bellezza e la virilità, le braccia possenti e le spalle enormi.

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