Prologo: 𝑨 𝒃𝒓𝒐𝒌𝒆𝒏 𝒈𝒂𝒎𝒆

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Cosa sei disposta a fare pur di essere libera?


Era un normale giorno d'estate, poco tempo dopo il mio decimo compleanno. Avevo ricevuto il mio primo gioco Pokemon per il Nintendo DS ed entusiasta ci avevo giocato per cinque giorni di fila. Finalmente ero riuscita a catturare il Pokemon leggendario, quello più difficile di tutti, che si prende solo alla fine del gioco. Avevo sudato, era stata una cattura difficile, che mi aveva costretta a usare tutte le mie conoscenze sul gioco. Dopo aver salvato, fiera del mio successo, ero uscita in giardino. Dalla finestra della mia stanza, avevo visto che alcuni dei miei fratelli erano fuori a giocare. Ero corsa giù per le scale con in mano il Nintendo, troppo frettolosa per aspettare l'ascensore. Volevo mostrare loro il Pokemon di cui andavo orgogliosa. I miei fratelli non si erano presentati al mio compleanno e ci ero rimasta molto male, ma avevo subito allontanato certi pensieri. Di sicuro, se avessero visto quel Pokemon saremmo tornati amici come prima.

Faceva molto caldo quel luglio, forse era per questo che solo mia cugina Ginevra e due mie amiche erano venute alla mia festa di compleanno. Tutti gli altri si erano persi una giornata bellissima! Mia madre mi aveva comprato una torta enorme e Zia Emily aveva decorato tutta la stanza che avevano prenotato. C'erano tanti palloncini, un sacco di cibo e della musica bellissima!

Aprii la porta di casa e una folata calda mi colpì il volto. Sì, di sicuro era per il caldo che nessuno era venuto alla mia festa. La maggior parte dei miei amici era partita per le vacanze e anche alcuni dei miei fratelli erano andati al mare con le loro madri.

Sempre correndo, raggiunsi i miei fratelli che stavano giocando a calcio. Quel giorno ce n'erano solo cinque. Filippo era in porta, l'avevano creata appoggiando due sassi al muro, mentre Lucky e i gemelli stavano tirando la palla contro il muro.

«Sta arrivando Harry Potter!»

In quel periodo, Lucky aveva iniziato a usare quel nomignolo per riferirsi a me. Mi piaceva molto e io ne ero felice, perché all'epoca Harry Potter era uno dei miei libri e personaggi preferiti.

«Ho catturato Lugia. Volete vedere?» chiesi loro, scuotendo il Nintendo con fierezza. La palla era ferma ai piedi di Lucky, che mi stava guardando annoiato. Notai che Stephen era sdraiato nell'erba, poco distante da noi. Stava leggendo un libro, probabilmente uno dei suoi soliti thriller. Non ci rimasi male per il fatto che non mi avesse nemmeno rivolto uno sguardo. Era più grande di me di qualche anno e mi aveva spesso ripetuto che i miei giochi non facevano per lui.

«A nessuno frega niente» mi gridò Lucky, prendendosi un'occhiata truce da parte di Filippo.

«Sì. A nessuno importa» ripeté Edoardo, imitando il fratello al suo fianco.

Ero un po' delusa. «Ma è il leggendario finale!» provai a convincerli e feci un passo verso di loro.

Gli occhi azzurri di Lucky divennero gelidi, come quelli di suo padre. «Ma non lo hai ancora capito?» Si girò con tutto il corpo verso di me. «A. nessuno. Importa. Niente. Di. Te. O. Di. Quello. Che. fai.» Le sue parole erano dette con odio. Non capii cosa significassero. Perché non gli importava quello che facevo? Feci un passo avanti, ma Lucky svelto tirò un calcio alla palla, che violentemente mi colpì in pieno volto. Sorpresa per il dolore, caddi a terra. Il naso iniziò a bruciarmi e sentii qualcosa di caldo bagnarmi le labbra. Mi toccai la bocca e le mie dita si sporcarono di sangue. I gemelli e Lucky si misero a ridere.

«Lucky!» Filippo diede uno strattone al fratello per rimproverarlo. Stephen, intanto era ancora indifferente, lo sguardo tra le pagine del libro che stava leggendo.

«Calmati, calmati» stava dicendo Lucky, mentre scrollava le spalle infastidito. «Ora vado a scusarmi.»

Il sangue non sembrava fermarsi, così premetti una mano contro il naso e alzai la testa verso il cielo. Non era la prima volta che ricevevo una pallonata in faccia e ormai sapevo come comportarmi quando mi usciva sangue dal naso. E poi, Lucky non l'aveva fatto apposta, come le volte precedenti. Era solo maldestro e non sapeva mirare.

Lo osservai avvicinarsi a me. Sorrideva beffardo, come se fosse contento di avermi fatto male, ma sapevo che non era così. Dopotutto stava venendo a scusarsi, come le altre volte.

Eppure non pronunciò le parole che desideravo sentire. Si avvicinò al mio orecchio e con voce bassa, di modo che fossi l'unica a poterlo sentire, mi disse: «Smettila di essere così patetica.» I suoi occhi azzurri si fissarono nei miei. «Tu non sei nostra sorella e non lo sarai mai. Puoi provarci quanto vuoi, ma a nessuno di noi fregherà mai qualcosa di te.» Mi appoggiò una mano sulla spalla. «Capiscilo.» Spostò lo sguardo verso il mio Nintendo DS e con un calcio lo colpì, spezzandolo a metà. Poi, orgoglioso di se stesso, si allontanò.

Mi bruciarono gli occhi. Non era la prima volta che lui o altri miei fratelli mi rinfacciavano di non appartenere a quella famiglia, ma per qualche motivo, quel giorno, le sue parole mi colpirono con più forza, affondandosi nel mio cuore.

Presi quel che rimaneva del mio Nintendo DS, mentre delle fredde lacrime iniziavano a rigarmi il volto. Il suo calcio era stato così violento da rompere anche la schedina di gioco. Tutte le ore che avevo passato felice giocandoci erano andate perse.

«Non sei nostra sorella» riuscivo a sentire quella frase ripetersi nella mia mente. «Non sei come noi.»

Mi sembrava che le risate dei gemelli si fossero fatte più forti e quando Filippo allungò una mano verso di me per darmi un fazzoletto, io lo scacciai via. Non volevo più stare lì. Mi alzai e, senza che le lacrime si fossero fermate, corsi via.


Perché dovevo ripensare a quel momento? Avevo gli occhi chiusi, la mente ancora annebbiata dal sonno e le orecchie tese che attendevano il suono imminente della sveglia. Odiavo ripensare al mio passato, al modo patetico in cui mi ero attaccata a persone che non meritavano la mia attenzione. Per quanto volessi allontanare quei pensieri, non ci riuscivo. Solo la sveglia mi diede una scrollata. La mia mente divenne lucida di colpo e io mi misi a sedere, una mano che si allungava per spegnere l'affare che mi aveva salvata.

Tirai su con il naso, accorgendomi che avevo pianto anche nella realtà. Imprecai, perché non esistevano altre parole per esprimere le mie emozioni.

Ripensavo a quel momento troppo spesso. Ogni volta che ero nervosa per qualsiasi ragione, la mia mente mi riportava lì. Non sapevo nemmeno perché quel giorno mi fossi agitata, forse per la fine di un ennesimo anno scolastico? La quinta superiore si stava avvicinando troppo velocemente e io sarei presto diventata maggiorenne. Avrei voluto che il tempo si fermasse, impedendomi di crescere.

Non riuscivo a capire perché il mio inconscio decidesse di mostrarmi i miei momenti più tristi. Era come se, nonostante fossero passati molti anni, non fossi ancora mai riuscita a superare quelle parole. Eppure, non poteva essere così. Crescendo, avevo compreso quanto fosse inutile perdere tempo a correre dietro a persone come Lucky e i suoi fratelli. Era stato lui a farmelo capire, a permettermi di imparare che io valevo di più. Se lui non mi avesse rifiutata con tanta violenza, io avrei continuato a cercare l'appoggio suo e della sua famiglia.

L'unica cosa che effettivamente non gli avrei mai perdonato era l'omicidio del mio gioco. Quella era stata una crudeltà ingiusta.

Feci un lungo respiro, riempiendomi i polmoni, e mi pulii gli occhi, pronta ad affrontare un altro giorno. 

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