Di ospedali e giornate piovose

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La mattina seguente la sveglia di Giuseppe suonò impietosa, costringendoli ad alzarsi.
Fuori dalle finestre un cielo plumbeo, pesante che non prometteva niente di buono.

"Devi andare da tua sorella?" domandò Irene mentre lo osservava vestirsi
"Sì" rispose lui mentre si allacciava la camicia "Vado a vedere come sta e devo parlare con i suoi medici"
Irene si avvicinò al volto di Giuseppe con un biscotto, parte del bottino che il giorno prima era riuscita a reperire per la cena, cibo che Giuseppe non aveva minimamente toccato "Non riesco a mangiare" ammise lui scostando il viso come un bambino "Ma devi se non vuoi svenire" rispose Irene continuando ad agitare il biscotto davanti a lui, Giuseppe alzò gli occhi al cielo e con un morso prese il biscotto tenendolo tra i denti mentre finiva di allacciarsi la cintura, Irene non poté evitare di sorridere per quella scena così carina, anche se l'umore di Giuseppe era più nero del cielo di quella mattinata scura.

Finito di sistemarsi mangiò il biscotto sotto l'aria compiaciuta di Irene "Oh che bravo" disse lei cercando di tirarlo un po' su
"Io adesso devo andare, e tu dovresti correre a studiare"
Stavolta fu Irene ad alzare gli occhi al cielo "Va bene prof!"
Lui le depositò un tenero bacio sulle labbra e, come sempre, uscì prima di lei.

Irene tornò a casa, Clarissa però non c'era, aveva l'ultimo giorno di lezione, "meglio" pensò Irene, sollevata dal non dover spiegare niente alla sua amica, era troppo stanca per poter rimettere insieme i pezzi della giornata precedente.
Prima lui sembrava un traditore, un approfittatore che l'aveva sedotta e abbandonata e poi se lo era ritrovato in lacrime, distrutto e con un enorme macigno sul cuore.

Afferrò il libro di Diritto Penale consapevole che non avrebbe combinato nulla chiusa tra le mura di quella casa così, nonostante la giornata non proprio mite, uscì di casa per andare a studiare in biblioteca.

Ma la sua mente non poté non tornare a Giuseppe, al suo volto scavato, ai suoi occhi segnati, pensò che poteva attenderlo fuori dall'ospedale e studiare lì vicino.
Non voleva essere invadente, voleva solo esserci.

Sospirò ripensando a quando anche lei aveva passato le nottate in una sala d'aspetto, sentendo medici pronunciare parole che lei non aveva mai sentito ma che avevano l'aria di sembrare spaventose. Conosceva la sensazione di impotenza che si prova nel fissare qualcuno che si ama steso in un letto d'ospedale, il gocciolio delle flebo, l'odore di disinfettante, il rumore ritmico dell'elettrocardiogramma.
Un sorriso amaro le attraversò il viso, mai nella vita avrebbe lasciato Giuseppe solo in un momento così duro, sono cose che nessun essere umano dovrebbe affrontare da solo.

Prese il tram e si diresse all'ospedale dove Maria Pia era stata ricoverata, si sedette su una panchina non molto lontana, in una busta un paio di dolci appena acquistati, e il libro di diritto aperto sulle gambe.

Dopo quasi un'ora notò un po' di movimento all'ingresso dell' ospedale: c'erano diverse persone che stavano uscendo, per fortuna nessun giornalista, ma solo guardie del corpo.
Irene si incamminò verso Giuseppe quando si accorse che attorno a lui non c'erano solo guardie del corpo. Una donna bionda che gli accarezzava il braccio, gli parlava all'orecchio con aria seria e con rammarico.
Si fermarono, Irene immobile con il libro di diritto al petto, lei gli sussurrò di nuovo qualcosa all' orecchio e poi si abbracciarono, le mani di lei che gli sfioravano la schiena nel tentativo di rassicurarlo.

Valentina.
La sua ex moglie.
La madre di suo figlio.
La sua famiglia.

Irene non provò alcun risentimento verso di lei, verso quei gesti, era felice che Giuseppe non fosse rimasto solo dentro l'asettico edificio, ad affrontare tutto quel tormento.

Però un' improvvisa, lacerante consapevolezza si fece spazio in lei, un coltello che le apriva il petto: quella donna era la sua famiglia.
La persona che Giuseppe aveva portato con sé, che aveva scelto per avere conforto, probabilmente amica di Maria Pia.

Non riusciva a levarsi dalla mente quei terribili pensieri mentre i due parlavano, mentre le mani di lei continuavano a toccarlo.
Probabilmente la sera dell'accaduto aveva chiamato lei, aveva sfogato con lei al telefono tutto il suo dolore.

Chiuse gli occhi e si rese conto che alcune lacrime le rigavano il volto.
Non era arrabbiata, era semplicemente delusa, e non sapeva nemmeno bene come spiegare a sé stessa questa delusione.

"Lei è la sua confidente, la madre di suo figlio, la sua migliore amica, la donna che ha portato all'altare, che ha presentato alla famiglia" continuava a ripetersi mentre stringeva al petto il libro che le aveva fatto incontrare Giuseppe "Io sono la studentessa che lo distrae dalla sua vita impegnativa".

Non riuscì a staccare gli occhi di dosso da quella scena, finché non li vide sparire dentro l'auto nera.

Si avviò verso la fermata del tram senza smettere di ripetere a sé stessa che lei non sarebbe mai stata ciò che Valentina era nella vita di Giuseppe.
Iniziò a piovere e nel fissare le gocce che percorrevano velocemente il vetro del finestrino ripensò ad una frase che aveva sentito spesso: piangere sotto la pioggia ti fa sentire meno solo, come se ci fosse qualcuno che piange con te.

Si asciugò le lacrime e cercò di pensare ad altro, difficile farlo quando tutto le parlava di lui. Quando sulle gambe teneva un libro che portava il suo nome e dei dolci che aveva comprato per lui.

Mr President in love || Giuseppe ConteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora