La canzone dell'amore perduto

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Giuseppe non era mai stato un uomo puntuale, erano le parole che continuava a ripetersi Rocco mentre controllava ossessivamente l'orologio e batteva un piede per terra tenendo un ritmo tutto suo.

Intanto i corridoi di Palazzo Chigi si riempivano, l'odore del caffè, le chiacchiere della gente, i passi rapidi sul pavimento.
Tutto a Palazzo Chigi era sempre veloce, frenetico, persino il tempo per un caffè veniva rubato tra una scartoffia e l'altra.
Continuava a passeggiare davanti all' ufficio come un animale in gabbia, ogni volta che la lancetta scorreva di una tacca si diceva che sarebbe andato a cercarlo, però poi rimaneva lì ad aspettare.

Finalmente lo vide arrivare, testa bassa, probabilmente per non mostrare le sue condizioni a nessuno dei suoi collaboratori.
Quando fu dinnanzi al suo ufficio diversi assistenti gli si fecero vicino ma Rocco li liquidò subito, afferrò i documenti che stavano porgendo a Giuseppe e spinse l'uomo dentro lo studio.

In quel momento, chiudendosi la porta alle spalle, si era sentito veramente come un fratello preoccupato, lo stesso fratello che Giuseppe era stato per lui.

Incredibile come il dolore, seppur in forme diverse, su altri visi, in altri cuori procurasse le stesse ferite e fosse così universale.

Giuseppe si appoggiò alla scrivania passandosi le mani sul viso "Come stai?"
"Ho vomitato"
Rocco gli diede una fraterna pacca sulla spalla "Oggi andrà meglio"
Sapeva di star dicendo una banale frase di circostanza, ma davanti alla disperazione di quell'uomo non riusciva a formulare un serio consiglio, gli unici pensieri che riuscisse a formulare erano ovvi, scontati.

Conosceva bene quel dolore, il sapore amaro di una profonda delusione d'amore, la sensazione di aver perso tutto.
Si ricordava nitidamente i momenti in cui era lui quello in lacrime, col cuore rotto e Giuseppe che cercava di raccoglierne i cocci.
Quando aveva chiuso con Andrea, Giuseppe era lì a togliergli di mano bottiglie vuote, ad accogliere le sue lacrime, a fargli coraggio.

Adesso toccava a Rocco essere la sua roccia, aiutarlo, medicare la mano tagliata, impedire che occhi indiscreti lo mettessero a disagio. Suo malgrado Giuseppe aveva il peso di un Paese che gravava sulle sue spalle e non poteva permettersi di sparire, affogare in santa pace nel suo dolore.
Rocco era lì apposta per proteggerlo, a suo modo.

Dopo aver preso un'aspirina per il mal di testa Giuseppe si mise al lavoro, circondato da decine di fascicoli da leggere, controllare, firmare, Rocco rimaneva lì a lavorare al pc, ogni tanto alzava gli occhi verso di lui per controllarlo.
Per evitare che Giuseppe venisse ulteriormente disturbato aveva chiesto a tutti di restare fuori dall'ufficio e di entrare solo per questioni di massima urgenza.
Aveva fatto tutto Rocco.
Aveva ritirato i documenti, parlato con gli assistenti, spostato l'intervista, prevista per quella mattina.
Non glielo aveva detto, ma era estremamente grato per quanto aveva fatto per lui.

Irene anche, pur non ricoprendo un ruolo di vitale importanza tra le fila del Governo, era chiamata a svolgere i suoi doveri di studentessa anche se quel giorno l'avrebbe voluto passare distesa sul letto a piangere.

Le doleva ammetterlo, ma si sentiva veramente a pezzi. L'ultima persona a cui aveva dato così tanto potere era suo padre ed era finita molto male per il suo cuore affranto.
Adesso un altro uomo con prepotenza si era insinuato nei suoi pensieri, le aveva fatto toccare il cielo con un dito, aveva dato senso a tutte le sue giornate grige, le aveva fatto riscoprire la bellezza di amare e poi l'aveva catapultata in una spirale di sconsolatezza e amarezza.

Si mise davanti al suo computer per continuare la stesura della tesi che stava procedendo molto bene e a ritmi estremamente rapidi.
Eppure ogni cosa tornava a parlare di lui.
Ogni oggetto, suono, ricordo gridava il suo nome con forza.

Mr President in love || Giuseppe ConteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora