Capitolo 16

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Mi voltai di soppiatto, ma vidi solo un signore fumare.
Sam mi aveva presa per il culo
"Samantha! – la ammonii, ma lei scoppiò a ridere – dai, mi hai fatto prendere un colpo!" Risi anche io e arrossii violentemente per lo spavento: se fosse stato veramente dietro di me, non saprei che cosa avrei fatto.
"Torniamo a parlare di cose serie, cosa ci fa Rinaldi a casa tua?!"
"Allora – sospirai – io mi sono trasferita in Italia perché ho scoperto una cosa grave della mia famiglia e ho deciso di staccare un po'. Marco è un mio parente, Sam." Non entrai nei dettagli, non avevo alcuna voglia di farmi rovinare la giornata con la storia di mio padre.
"Oh... spero non ti sia offesa." Mi guardò contrita e sorrisi.
"Offesa per cosa?" Passò un filo di vento nella mia direzione e rabbrividii, ma non mi pentii di non essermi messa altro: odiavo essere infagottata di vestiti.
Mi ricordo ancora quando mamma mi metteva canottiere, maglie a maniche corte, maglie a maniche lunghe, i pile, guanti, sciarpe, cappelli, solo per andare all'asilo e mi infastidivo così tanto, che mentre camminavamo, mi svestivo per strada: era impossibile avere tutta quella roba addosso
"Oh, menomale! Quello stronzo mi ha rimandata ogni anno con il cinque e mezzo, dimmi se non è crudele!" Incrociò le braccia al petto retoricamente la mia amica, risvegliandomi dal mio salto nel passato.
"Non lo so, a casa è molto carino e amorevole." Sorrisi per celare la tristezza di quei ricordi e mi alzai in piedi, il tram era in procinto di arrivare.
Passammo due ore in un negozio di cui non ricordo nemmeno il nome.
Sam si era provata di tutto: felpe, jeans, gonne, camicie, ma ancora niente l'aveva convinta.
"Ma quindi secondo te lo dovrei prendere?" Mi domandò per la centesima volta, riferendosi a un pantalone semplice, nero, a vita alta.
Eravamo da tre ore in quell'abitacolo minuscolo chiamato camerino, iniziavo a non respirare più.
"Sammy, tutto quello che ti sei provata ti sta bene, te lo assicuro!" Presi il suo volto tra le mani e la costrinsi a guardarmi negli occhi.
"Sicura o dici così solo per..."
"Sam, penso che tutto quello che ti sei provata ti stia da Dio, però ti prego, adesso usciamo che sto morendo!" Sospirai pesantemente, per me era già impegnativo starci da sola in un camerino, figuriamoci in due!
"Non lo so, sai quel programma che si chiama Abito da sposa cercasi?"
"No, non lo conosco." Lasciai il suo viso.
"Sono delle future spose che devono decidere l'abito giusto per sposarsi e quando lo trovano se lo sentono che è quello giusto!" Gesticolò animatamente.
"Ma tu non devi sposarti!"
"Lo so, è che..."
"Guardi troppa tv, ascolta me."
Uscii dal camerino, facendo scivolare gli anelli della tenda sul bastone di metallo.
"Va bene Am, mi fido di te." Prese tutte le grucce e aspettai che si cambiasse, prima di raggiungere la cassa.
"Cazzo..." Imprecò, guardando l'orario dal telefono.
"Che c'è?" domandai interrogativa.
"Am, sono le cinque e un quarto e guarda quanta coda c'è!"
Mi voltai ed effettivamente aveva ragione, come minimo ci avremmo impiegato mezz'ora.
Ecco perché ordinavo sempre tutto su internet.
"Sam, cosa succederà mai se tarderai."
Minimizzai per tranquillizzarla, ma sapevo fosse inutile: la puntualità era la sua ossessione.
Secondo me, lo faceva perché in questo modo pensava che avrebbe avuto il controllo in mano, anche se tutto ciò non aveva senso.
Il tempo non lo potevi controllare, potevi cercare solo di arrivare in tempo.
"Amanda, sono seria, se arrivo tardi al compleanno di mia madre mi uccide!" Mi guardò supplichevole e io sbuffai, conoscevo quello sguardo, voleva dire 'pensaci tu'.
Mi schiarii la voce e attirai l'attenzione di tutte le persone che stavano facendo la coda.
Dio, cosa sto per fare...
La mia timidezza cercò di bloccarmi in tutti i modi possibili, ma non ci riuscì.
"Vi prego, c'è qualche buon'anima che potrebbe far passare me e la mia amica – tracciai una linea immaginaria tra me e Samantha – c'è... nostra nonna che è in ospedale." Mi morsi l'interno della guancia per non ridere e Sam tossì: anche lei avrebbe voluto ridere.
Subito si scatenò un brusio, sentivo delle ragazze ridere e non prenderci sul serio (giustamente), altri mandarmi a stendere, ma poi...
"Prendi il mio posto." La voce scostante di Mattia si era fatta largo in tutta la coda, fino a raggiungere le mie orecchie.
Cosa ci faceva anche lui là?!
La sezione dei ragazzi non era al piano di sopra?
Il mio cuore mancò di un battito e sentii una vampata di calore percorrere tutti i miei lineamenti facciali.
"G-grazie." Riuscii a dire solamente e
Sam mi diede una gomitata, che accolsi malamente, ma mi fece capire che tutti stavano solo aspettando che noi raggiungessimo Mattia.
Inciampai sulle mie stesse scarpe e impacciatamente mi feci largo per affiancarlo.
"Dobbiamo parlare." Mi sussurrò all'orecchio con voce vellutata e io rabbrividii, ma non lo diedi a vedere.
"Adesso?" Mi lamentai in un bisbiglio.
"No, adesso dovete andare da vostra nonna." Rise sotto i baffi e lanciò un'occhiata a Sam, che lei ricambiò.
Prese il nostro posto in fondo e dopo due minuti riuscimmo a pagare.
"Duecento euro" disse la commessa e il mio volto sbiancò; non che mi mancassero i soldi, ma una cosa era sicura: non li sapevo gestire bene, ero conscia del fatto che alcuni vestiti che avevo comprato, li avrei messi sì e no una volta sola.
"Grazie, grazie!" Sam mi tempestò la guancia di baci, una volta fuori dal negozio.
"Adesso corri, scema!" Le diedi una spintarella, simile a quella che mi aveva dato lei la sera prima e sfrecciò, non prima di avermi lanciato un bacio volante che io feci finta di afferrare al volo.
Quando la vidi diventare un puntino e poi scomparire, estrassi lo scontrino dalla busta marrone e lessi tutto ciò che avevo comprato tra borse, scarpe, accessori, felpe, jeans, vestiti eleganti, maglioni...
"Che bella felpa." Commentò una voce maschile dietro di me, fin troppo familiare.
"Già." Mi voltai e vidi Mattia con una busta con su scritto Bershka.
Ecco qual era il nome del negozio!
Ma com'era possibile che avesse già finito di pagare?
"Come hai fatto a fare così in fretta con tutta quella coda?" Espressi il mio dubbio ad alta voce e lui si accigliò, ma non lo presi come un cattivo presagio.
"Hanno aperto la cassa al piano di sopra – mi rispose distrattamente e io annuii – non ci girerò intorno, rivoglio la mia felpa."
Okay, il fatto che si fosse accigliato era un cattivo presagio.
"Ah, d'accordo." Tagliai corto e mi voltai adirata, nemmeno un 'ciao come stai? No, 'rivoglio la mia felpa'.
Che stronzo!
La felpa è sua!
Sì, ma ci sono modi e modi di dire le cose.
"Mi dici okay e non me la dai?" Udii la sua voce farsi sempre più vicina.
"Ho detto d'accordo, non okay e come vedi è l'unica cosa che ho addosso, ma se proprio non puoi viverci senza – dissi sarcastica, lasciando cadere dalle mani i miei duecento euro di shopping – ecco a te."
Mi sfilai la felpa goffamente e gliela lanciai, sentendo subito il freddo attraversare la mia pelle; una canottiera non bastava per ripararmi dall'arrivo dell'autunno.
Certo, nelle borse avevo delle felpe nuove, ma non le avrei mai messe in quel momento, chissà quanti corpi sporchi le avevano indossate per provarle!
Al pensiero rabbrividii, avrei preferito mille volte morire di freddo.
"Ah e grazie tante per averci fatto saltare la coda." Lo ringraziai acidamente e afferrai le borse, intenta ad andarmene.
"Volevo..."
"Io non ti capisco sai?" Sospirai e formai una nuvoletta di vapore. "Se devi sempre inventarti cazzate per fare le tue 'opere di carità' – mimai le virgolette – non farle e sei apposto! Anzi, preferisco che tu non faccia niente!" Gesticolai con le borse in mano e lui ammiccò.
"Non mi hai nemmeno fatto finire la frase" disse divertito.
"Ma tanto so già cosa volevi dire, che l'hai fatto perché..." Mi bloccai, non mi vennero in mente esempi.
"Perché?" Mi incitò a continuare.
"Lasciamo stare, vado che ho da fare." Sviai, anche se era vero, avevo da fare, Riccardo mi aspettava a casa per l'ora di cena ed ero già in ritardo.
"Ma dove vuoi andare?" Rise dietro di me, ma io non mi voltai.
"A casa, magari!" dissi retorica, sentendo il freddo graffiarmi le braccia.
"Intendo dire, dove vuoi andare se sei nuda e ci sono quattordici gradi." Mi si parò davanti, costringendomi a fermarmi.
"Non sono nuda." Misi i puntini su tutte le 'i', inutilmente.
"Oh beh, immagino che la tua canottiera bianca trasparente che fa vedere il tuo reggiseno – si sporse verso il mio seno – mhm di colore blu notte con il pizzo, ti terrà al calduccio."
Fece un sorriso sghembo, soddisfatto di avermi messa in imbarazzo.
Guardai furtivamente la mia scollatura ed era vero, si vedeva tutto.
"Mattia, che cosa vuoi?" domandai stizzita e mi coprii il petto; a quel punto mi porse la felpa con il broncio.
Ah si?
"Beh, se lo fai perché poi non vuoi avermi nella coscienza o perché..."
"Ma perché devi fare la testarda orgogliosa?!" Mi acciuffò e mi infilò la felpa, scompigliandomi tutti i capelli.
Lasciai cadere nuovamente le buste e cercai di sistemarmela, spostando il cappuccio per fare stanare la testa.
"Mi hai fatto male." Lo trucidai con lo sguardo e lui minimizzò con un cenno della testa.
"Ci vediamo lunedì." Si voltò e mi lasciò in aria, facendo ribollire una rabbia così forte, che mi venne voglia di raggiungerlo solo per sbattergli nuovamente la sua stupida felpa, ma fortunatamente il mio buon senso mi fermò.
Già ieri e l'altro ieri ci dovevamo vedere lunedì e invece lo avevo di nuovo rivisto (non riuscivo a stabilire se fortunatamente o sfortunatamente.)
Sospirai e raccolsi tutte le buste, ormai, per la centesima volta e tornai a casa.
"Dove sei stata?" Lo sguardo intimidatorio di Riccardo trapassò il mio, non appena mi aprì la porta d'ingresso.
"In via Roma, da Bershka, con Samantha" dissi sarcastica, per dileguare la tristezza.
"Hai detto che saresti arrivata alle sei, al massimo." Entrai e appoggiai le buste vicino all'appendiabiti.
"A quanto pare ho dovuto ritardare." Mi sforzai di non essere arrogante, ma non ci riuscii: quello sarebbe stato l'unico muro che avrei innalzato per difendermi dall'ultra sensibilità.
"Ma la smetti di fare la spocchiosa?" disse, quando vide che stavo guardando il mio riflesso nello specchietto che era posto all'entrata, ma il suo tono era tutt'altro che scherzoso.
"Riccardo, qual è il problema se ho ritardato di un po'?" Continuai a dargli le spalle, non volevo dargli la soddisfazione di vedere che ci ero rimasta male.
"Di un po'? Un'ora! – alzò la voce e mi obbligò a voltarmi – ti ho chiamata cinque volte!" Mi fece pesare di più la cosa e roteai gli occhi.
"Era in silenzioso!" dissi la verità.
"Beh, allora la prossima volta metti la suoneria al tuo cazzo di telefono, che dici?"
Probabilmente si era preoccupato, ma senza dubbio aveva dei modi discutibili di dire le cose.
"Ricky..." Tentai di avere una conversazione e non un battibecco.
"Ricky un cazzo, fai sempre così, fai preoccupare le persone inutilmente." Mi guardò vituperante e mi rimpicciolii.
"Se non ti vado bene così, non sei obbligato ad essere 'il mio fratellone protettivo' – mimai le virgolette – è una stronzata che ci siamo inventati noi per fare contenta Jessica, tu non sei niente per me e io non sono niente per te! Quindi ti prego, smettila, perché sembri fottutamente mio padre!"
Urlai animosa, avrei rivoltato tutte le emozioni messe insieme e avrei detto tutto ciò che mi sarebbe passato per la testa, l'importante era non scoppiare a piangere, quelle lacrime le avrei riservate per la sera, prima di andare a dormire.
Il suo sguardo rimase impassibile, ma quando sbatté le palpebre, notai una piccolissima punta di tristezza, ma in quel momento non mi importò minimamente, almeno, in quel momento.
"Hai ragione – disse inaspettatamente e il mio stomaco si rivoltò – sono una cazzata enorme i sabato sera in Piazza Vittorio e i martedì a guardare le stelle."
Deglutii rumorosamente e qualcosa si ruppe dentro di me, si fendette, un qualcosa di piccolissimo, ma si frantumò.
Tentai di velare tutta la tristezza (che era sul punto di straripare) con un finto sguardo disinteressato, sotto i suoi occhi pungenti.
"Esatto, piuttosto esci con Gaia il sabato sera e il martedì invita qualcun altro a vedere le tue stupide stelle."
Con passi svelti raggiunsi la mia camera e chiusi la porta con un tonfo.
Non poteva averlo detto seriamente.
Appoggiai la schiena contro la porta e lentamente mi sedetti, portandomi le ginocchia al petto.
Sentivo l'aria fredda passare da sotto la portafinestra, ma non mi interessava se i brividi si erano impossessati del mio corpo e non riuscivo a smetterla di frignare.
In quell'istante volevo solo che la mia mente ripetesse un centinaio di volte le parole di Riccardo, in modo da farmelo odiare.
Iniziai a vedere tutto sfocato, le lacrime erano sul punto di non essere più contenute dai miei occhi, proprio come quando metti troppa acqua su un bicchiere: il liquido trasparente non è più in grado di essere contenuto e ha bisogno di scendere lungo i lati del recipiente.
Le lacrime rigarono il mio volto e socchiusi gli occhi, gli uomini erano tutti degli stronzi, compreso Ferra, lui e la sua stupida felpa grigia non volevano avermi nella coscienza, per questo me l'aveva data!
Dileguai qualsiasi pensiero lucido e guizzai in piedi.
Mi tolsi la felpa di Mattia più in fretta che potevo e presi dal mio armadio, alla cieca, una felpa con la zip.
La indossai e uscii dalla portafinestra, asciugandomi freneticamente le guance e non appena mi trovai davanti al cancello, pescai le chiavi nella mia tasca; sbagliai due volte a inserire la chiave.
"Qual è chiave?" domandai con isteria a me stessa, consumando la mia rabbia e assestando un calcio sul cancello.
Finalmente la trovai e mi fiondai sul citofono di Mattia.
"Chi è?" domandò e tirai un sospiro di sollievo, fortunatamente non mi aveva risposto la madre o qualcun altro.
"Sono Amanda." Sorprendentemente mi aprì senza proferire parola o chiedere spiegazioni e io corsi a piedi fino al settimo piano, continuando ad asciugarmi le lacrime; ormai i miei condotti lacrimali sembravano una turbina difettosa ed ero così arrabbia, che avevo bisogno di scaricare un po' di energie.
"Mi spieghi perché non hai preso l'ascensore?" chiese divertito, con un biscotto a mezz'aria, non appena arrivai finalmente al settimo piano.
Non c'era niente da fare, era bello anche con i capelli scompigliati e la maglietta stropicciata.
Ah e anche con i pantaloni della tuta viola.
"Hey, ma hai pianto?" Il suo sguardo si addolcì gradualmente.
Ricorda cosa ha fatto poco prima, non farti ingannare dalla sua voce o dal suo sguardo
Giusto.
"No, non ho pianto." Scossi la testa, cercando ti riprendere fiato.
"Ah no? Strano, i tuoi occhi sono rossi e gonfi." Mi invitò a entrare.
"Non c'è bisogno, sono solo venuta qua per... per darti la tua felpa." Gliela porsi e non seppi per quale motivo, mi sentii tanto ridicola.
"Sei la persona più sventata che io abbia mai conosciuto, sai?" Scosse la testa sorridendo e mi afferrò per un braccio, ma questa volta non bruscamente come aveva fatto fuori da Bershka.
"Devo trascinarti o puoi entrare?"
Le mie gambe fecero due passi senza aver consultato prima il cervello.
Appena fui definitivamente dentro casa sua, un odore di bucato mi pervase le narici e mi rilassai immediatamente.
L'entrata era spaziosa, subito alla mia sinistra c'era un appendiabiti e alla mia destra c'era un pianoforte a muro, di colore marrone.
Mi guidò verso la porta più vicina al pianoforte e la aprì: era la cucina.
Le pareti erano di un giallo acceso e al centro c'era un tavolo bianco, con intorno quattro sedie del medesimo colore.
Dietro il tavolo, c'era una portafinestra che dava probabilmente al terrazzo.
"Siediti." Sembrò più un ordine che un invito; tirai su con il naso e obbedii.
Accese il gas e versò dell'acqua in un pentolino, per poi accendere il fuoco.
Presi il cellulare e scrissi a Marco che ero da un'amica che abitava di fronte a noi e di non preoccuparsi se non mi avesse trovata in casa.
Sbloccai più volte il telefono per vedere se Riccardo mi avesse scritto, ma niente, c'era sempre la mia foto con Sam come sfondo.
Mattia mise una tovaglia sopra il tavolo, ci appoggiò una teiera graziosa con fantasie e fiori, e apparecchiò il tavolo.
Prese due tazze bianche e ci versò in entrambe l'acqua fumante.
"Ti ascolto." Mi porse un filtro, che non stetti nemmeno a vedere che gusto fosse e lo inzuppai più volte nell'acqua della mia tazza.
"Ho litigato con una persona per me importante" dissi soltanto, appoggiando il filtro sul tovagliolo posto alla mia destra.
In più sono arrabbiata con te, stronzo
"Avete chiuso definitivamente?"
Mi concentrai sul diguazzare il cucchiaio nella tazza, solo a pensarci gli occhi diventavano nuovamente lucidi.
Avevamo chiuso io e Riccardo?
Nessuno dei due lo aveva detto esplicitamente, ma se i sabato sera in Piazza Vittorio e i martedì sera a guardare le stelle non ci sarebbe più stati...
"Io... non lo so." Sospirai e sentii colarmi il naso, così tirai su, conciata a causa di quella stupida lite; continuai a girare il tè o quel che era e mi soffermai sul piccolo vortice che si stava formando.
"E chi è questa persona?" Sentii il suo sguardo puntato, così aprii la bustina di zucchero appoggiata sul piattino, pur di non guardarlo.
"Un mio famigliare... diciamo" farfugliai.
Chi era Riccardo?
Un tizio preso in affidamento dai miei zii come fosse loro figlio.
Quindi una sorta di cugino?
Ma vivendoci insieme un fratellastro
Va beh, tanto qualsiasi cosa fosse, avevamo chiuso.
"Allora ci farai pace." Lo vidi con la coda dell'occhio fare spallucce e addentare un tramezzino che non mi ero nemmeno accorta avesse messo in tavola.
"E come fai a esserne così sicuro?" Bevvi un sorso di tè, ma era ancora troppo bollente, (infatti mi scottai la lingua e soffrii in silenzio.)
"Non a caso faccio scienze umane e studio psicologia" disse borioso e lo guardai scettica.
"Credevo che facessi anche tu il linguistico." Tentai di sorseggiare nuovamente il mio tè troppo dolce, sarebbe stato meglio mettere mezza bustina in effetti.
"Ho la faccia di uno che studia le lingue?" Portò la tazza bianca alle labbra e gli feci una foto con una velocità che non sapevo mi appartenesse.
"Guardati." Gli mostrai la foto che gli avevo fatto solo perché in quel momento era dannatamente bello e non per fargli vedere che aveva la faccia di uno che studiava le lingue.
"Quanto sono figo!" Si elogiò e sorrisi per la sua spontaneità.
"Non lo so, ma di sicuro non hai la faccia di uno psicologo." Risi e i miei denti si scontrarono con la tazza di vetro, quando la portai alla bocca.
"Ma non voglio fare lo psicologo, infatti."
"E menomale, saresti un pessimo psicologo!"
"Da quale pulpito, scusa?"
"Guarda la bella seduta che hai fatto!" Feci riferimento al suo 'allora di sicuro farete pace' e lui assunse uno sguardo di sfida.
"Scommettiamo che a fine serata non sarai più triste?" Appoggiò la tazza ormai vuota sul tavolo.
"Ma quale fine serata! Devo tornare a casa adesso." Mi alzai dalla sedia che raschiò contro il pavimento, provocando un rumore strido e le smorfie mie e di Mattia; strinsi i denti con un'espressione di scuse e spostai i capelli dal lato opposto, impacciata.
"Ma non hai detto che avevi litigato con uno della tua famiglia?"
"Esattamente."
"E hai intenzione di tornatene a casa?" Si avvicinò a me.
"E dove vado altrimenti?"
"Stai qua, mia madre è in tournée e tornerà tra una settimana. Niente sesso, niente scambi di liquidi, solo Netflix e coperte, cose banali che fanno gli amici."

Io e te. Il resto non conta.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora