Capitolo 43

10 1 0
                                    

Riccardo's Pov

Aprire gli occhi mi parve quasi come aprire una porta pesantissima e sforzarti troppo per entrare dove stai cercando di entrare: una fatica insolita. Il dolore, la prima cosa che mi ricordai in assoluto, avevo un terribile mal di testa, un dolore così intenso, impossibile da descrivere, era come avere un elmetto troppo stretto attorno al cranio che non faceva altro che creare una pressione continua, un dolore che si irradiava fino al collo e alle spalle.
Immediatamente apparvero diversi tizi che mi puntarono luci in faccia, i quali mi appoggiarono un robo strano freddo sulla schiena e mi chiesero di fare respiri profondi.
"Senti troppo dolore?" Mi chiese uno di loro, ma non fui in grado di vederlo, il dolore era così intenso che avevo iniziato a strizzare gli occhi e a lacrimare.
"Aumenta l'antidolorifico" borbottò uno di loro e strinsi la prima cosa che mi capitò fra le mani.
"Ti ricordi perché sei qua?" domandò un'altra voce.
Bella domanda, dove ero? Che diavolo era successo? Chi diavolo erano tutti questi tizi che mi stavano torturando? Anzi, prima di tutto, chi ero io?
"Come... c-ome chiamo?" Cercai di formulare una domanda di senso compiuto, ma non ci riuscii. Come ero fatto? Aprii gli occhi per vedere le mie mani e le mie gambe, ma non ero in grado di muoverle; oltre a non sapere chi fossi, avevo per caso dimenticato come si parlasse? Quanti anni avevo? Otto? Le mie mani non erano proprio di un bambino. Come ero fisicamente? Ero biondo con gli occhi azzurri o avevo dei capelli castani e degli occhi marroni banali?
"Riccardo, hai subito un incidente importante, ma hai davvero una forza incredibile. Hai combattuto fino alla fine."
Un signore anziano rispose a qualche mia domanda esistenziale. Okay ehm... ero andato in guerra? Ero un soldato? E in quale anno ero?
"Entro qualche ora ti sentirai molto meglio, promesso." Strizzò un occhio e notai solo in quel momento altre due persone, una donna e un uomo sulla trentina, per l'esattezza.
"Mi amor!" Quella donna mi strinse forte la mano e la tappezzò di baci. L'uomo, suo marito dedussi, mi coccolò con gli occhi.
Erano i miei genitori, forse?
"Come ti senti?"
Qualcuno bussò alla porta ed entrarono due tizi vestiti di blu; e ora chi erano questi?
Troppe persone in troppo poco tempo.
"Ciao Riccardo." Uno dei due sfoggiò un sorriso che in teoria avrebbe dovuto rassicurarmi, ma non lo fece.
In risposta feci un piccolo cenno con il capo.
"Come stai?"
"Mi fa... testa." Feci una smorfia per il dolore.
"Ricordi qualcosa di quella notte? Qualsiasi cosa?"
Ma di che diavolo stava parlando? Mi accigliai e la donna dagli occhi nocciola abbandonò la mia mano.
"No." Scossi la testa e cercai con tutto me stesso di ricordare, io dovevo pur ricordare qualcosa, perché non riuscivo a ricordare niente?
"Non penso proprio sia il momento delle domande" borbottò quel signore, ma quei due insistettero. Era come sentire aramaico.
Improvvisamente qualcuno spalancò la porta e apparve una ragazza con la faccia tutta rossa e con il fiatone: assomigliava alla donna che mi aveva stretto la mano.
Si guardò attorno, raggiunse timidamente quella coppia e i suoi occhi si riempiono di acqua.
"Mi dis...ce, ma non ricrodo nie...!" ribadii mortificato, mi dispiaceva davvero non essere loro d'aiuto.
Annuirono e lasciarono quella stanza.
"Ti riprenderai alla grande, ti terremo ancora in osservazione, ma tornerai a casa prima di quanto ti immagini" ripetè quello che dedussi fosse un dottore e lo sperai con tutto me stesso; la mia mente era un tunnel senza ricordi, non sapevo chi fossero tutte quelle persone, chi fossi io.
Se fossi stato in grado di muovermi, avrei cercato di alzarmi e di iniziare a tempestare tutti di domande, ma dubitavo fosse possibile dal momento che non riuscivo a collegare cervello e lingua.
La ragazza con i capelli lunghissimi chiese qualcosa alla dottoressa che non fui in grado di udire. E lei chi era?
"E tu chi sei?" Diedi voce ai miei pensieri.
Era una mia amica?
No, anzi, forse mia sorella.
Un'amica di quella coppia?
"Amanda." Ci pensò un po' prima di rispondere, come se fosse poi così difficile spiegare perché fosse là. Strinsi delicatamente la sua mano tremante e mi presentai.
Un attimo, come mi chiamavo già?
Renato?
Anzi, Gerardo?
Ah, no, tipo Bernardo?
Ah, adesso ricordavo!
"Ronaldo, piacere mio." Cercai di essere gentile e la donna alla mia destra sorrise.
"Tesoro, ti chiami Riccardo, non Ronaldo."
Meglio, almeno non avevo un nome orrendo.
E poi non so come, scoppiai a piangere per innumerevoli ragioni, tipo perché non sapevo quanto tempo avessi dormito e cosa mi fossi perso, tipo perché non riuscivo a ricordare niente di niente, tipo perché mi faceva male ogni singola fibra del mio corpo, tipo perché non riuscivo a dare voce ai miei pensieri, tipo perché facevo fatica a deglutire, tipo perche avrei preferito non essermi mai svegliato, tipo perché mi sentivo un bambino rapito e ora tre sconosciuti lo fissavano speranzosi e non sapevo cosa si aspettassero da me, tipo perché non avevo nemmeno le forze per piangere, tipo perché avevo un tubo conficcato nel naso che mi dava fastidio da morire e che istintivamente tirai.
"No, no! – mi bloccò le mani – lo so che dà fastidio, ma non lo devi togliere, non deglutisci ancora bene." Quella donna mi abbracciò e l'uomo vicino a lei pianse. Il mio pianto era contagioso?
La guardai in cerca di risposte e sciolse l'abbraccio.
"Hai ragione tesoritomi accarezzò la fronte – io sono Jessica, tua mamma, lui – indicò il tizio vicino a lei – è papà, si chiama Marco e lei – mi voltai – è... tua sorella. E tu invece, sei Riccardo Rinaldi, un ragazzo meraviglioso." Si bloccò e si commosse. "E sei un ragazzo fantastico, ti amano tantissime persone, sei diplomato, hai tanti progetti, il tuo piatto preferito sono gli spaghetti al ragù, sei solare e strappi un sorriso a chiunque." Piangevano tutti tranne lei.
Mi guardava come se fossi il neonato che sognava di tenere in braccio da tempo, ma che aveva paura di far cadere e quindi non si osava.
"Faccio l'infermiera in neuropsichiatria, Marco è il vicepreside di una scuola superiore e Amanda frequenta proprio quella scuola – tirò su con il naso – e non c'è bisogno che io vada avanti perché sono sicura che a breve ricorderai tutto e starai meglio di prima." Marco le passò un fazzoletto e si soffiò il naso. "Sei stato in coma undici giorni perché ti hanno investito, per questo sono venuti i carabinieri, per interrogarti. Hai subito un intervento delicato, ma sapevo che lo avresti superato alla grande. È normale, è normale che ti senti confuso, debole, disorientato, che è tutto così strano e..."
"Jess." La interruppe il mio presunto papà, ma lei andò avanti come un treno.
"Passerà, ti prometto che ti sentirai meglio e che... – scoppiò per l'ennesima volta in lacrime – ci sei mancato tantissimo e che mi rendi tutti i giorni la mamma più felice del mondo."
Si ancorò a me, ricambiai quell'abbraccio e assorbì tutto il suo affetto in meno di un secondo.
Quasi mi ricordassi già quanto le volessi bene.
Quindi avevo diciassette anni? E il mio piatto preferito erano gli spaghetti? E sono solare? Non male. Però come ero fatto?
La mia presunta sorella mi passò un cellulare, il mio forse e aprì la fotocamera: perché mi immaginavo completamente diverso?
"Qui ci sono tutte le tue foto, il tuo profilo Instagram, le tue chat su whatsapp, la tua playlist preferita, Netflix e tutto quello che ti servirà per ridimensionare te stesso" disse Marco; in fondo in fondo, mi somigliava.
"Adesso dobbiamo andare, ci vediamo domani, okay?" Jessica mi strinse fortissimo e le stampai un bacio sulle labbra, anche se volevo darglielo sulla guancia. O forse volevo darglielo sulle labbra perché quel gesto avrebbe racchiuso tutto il mio affetto immediato nei suoi confronti; sapevo che in qualche parte del mio cuore o del mio cervello che anche io ero affezionato a lei allo stesso modo in cui lei era affezionata a me.
Marco mi riempì di baci sulla guancia e mi venne il dubbio di aver sentito male e al posto di avere diciassette anni ne avevo sette.
Amanda sventolò la mano e fu la prima ad uscire da quella stanza, la stessa che era fissata nelle chat di whatsapp. La stessa che avevo salvato in rubrica come la mia peruviana.
Ero sudamericano? In effetti Jessica lo sembrava, io per niente. Avevo preso da Marco probabilmente.
I miei social erano intasati di messaggi, un certo Alex mi chiedeva se fossi morto (che poi se anche fosse stato come avrei fatto a rispondergli?), un certo Samuel mi diceva che mi sarebbe venuto a trovare appena fosse stato possibile, una certa Gaia si scusava per essersi comportata male con me e tantissimi altri tizi chiedevano come stessi. Non risposi a nessuno, non ne vedevo il senso e perché mai avrei dovuto accettare di vedere persone di cui non ricordavo un fico secco in queste condizioni?
Aprii la galleria e trovai molte foto di Amanda, quasi tutte buffe per prenderla in giro, discoteche, discoteche, discoteche, pub, ragazze, foto in cui bacio tante ragazze, bottiglie di alcool, sigarette, canne, foto mie allo specchio.
Mi confusi ancora di più. Se era davvero quella la mia vita, beh, allora avevo davvero una vita di merda.

Io e te. Il resto non conta.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora