Riccardo's Pov
"E adesso?!" Continuò a ripetere Ale, ancora con il fiatone.
"Non lo so." Mi sedetti sull'erba bagnata e incrociai le gambe.
"Come sarebbe a dire non lo so?" Si sedette di fronte a me.
"Significa non-lo-so. Volevo uscire da quel posto e basta."
L'espressione di Ale cambiò immediatamente.
"Mi stai dicendo che mi hai trascinato qua fuori e non hai nemmeno un piano?!"
"Io non ti ho obbligato, sei tu che hai voluto seguirmi di tua spontanea volontà."
"E non hai pensato al dopo?" Si rifiutò di credermi.
"Ti sembra che quando ho ingerito tutto quello Zoloft ho pensato al dopo?"
Alessandro tacque. Pensai si fosse pentito immediatamente di aver seguito uno squilibrato come me e che in quel silenzio si chiedesse il perché mi avesse seguito, sapeva fosse da stupidi, sapeva che lui era di certo molto più normale di me e a differenza mia si immaginava le conseguenze.
"Perché tremi? Hai freddo?" Si concentrò sulle mie mani e mi vergognai da morire.
"Sono i farmaci" dissi solamente e le nascosi.
"In ogni caso fa freddo cazzo, tra un po' sarà buio pesto e siamo in mezzo a una foresta!" Si alzò in piedi e mi tese una mano.
Perché era così gentile con me? Perché continuava a esserlo dopo che lo stavo rendendo una persona peggiore?
Io non lo avevo veramente un piano, volevo solo uscire dal quel maledetto posto e basta, volevo fare qualcosa di proibito che non mi avrebbe fatto rischiare la vita.
"Dove siamo?" Sapevo bene fossimo fuori città, ma non avevo minimamente idea di come si chiamasse quel comune, l'unica cosa di cui ero a conoscenza era che la mia struttura fosse in mezzo al niente. Lo avevo già capito dal trasporto in ambulanza.
"Che cazzo ne so! – si guardò attorno – ma è meglio che capiamo dove finisce questa foresta di merda, prima che faccia buio!"
Girovagammo per almeno venti minuti e l'euforia iniziale della fuga svanì come neve al sole.
Le mie mani iniziarono a bruciare e una ridda di pensieri occupò la mia testa. Avevo bisogno di agire, non potevo starmene con le mani in mano mentre quello spazio infinito dentro di me avanzava sempre di più, senza il mio permesso. Avrei preferito mille volte essere trafitto da una lancia che continuare a sentire quell'insolito senso di niente, almeno avrei sentito qualcosa, forse dolore, ma almeno avrei sentito qualcosa. Non capivo perché le persone fossero così spaventate dal dolore, a volte si rivelava miracoloso: era proprio questa la sua funzione, quella di sopravvivenza, quella di avvertire il corpo che c'è qualcosa che non va.
Era solo da ringraziare.
"Finalmente cazzo!" esclamò Ale: ci trovavamo di fronte a una stazione del treno.
"E dove andiamo senza soldi, telefono, una destinazione..." Pensai ad alta voce.
"Ah, finalmente ti poni il problema! – mi diede una piccola gomitata – penso di avere in mente una destinazione." Si massaggiò la testa rasata.
"Ovvero?" Deglutii, ma non percepii la mia saliva in bocca.
"Mio padre ha una casa a Torino e le chiavi sono nel portaombrelli di fianco alla porta."
"E perché mai avete delle chiavi..."
"Quella casa è per gli imprevisti e tu negli imprevisti non hai le chiavi dietro di una casa nella quale non vai mai, quindi quale migliore idea di lasciarla nel portaombrelli!"
Alzò il capo per vedere gli orari del nostro treno sul tabellone.
Sì, non era una cattiva idea. D'altronde, chi avrebbe mai cercato un mazzo di chiavi in un portaombrelli? Non io di certo.
Sotto al tappeto al massimo.
"Questo momento è cruciale: dobbiamo sembrare due persone normali, non due evasori seriali e soprattutto – mi alzò il cappuccio della felpa sulla testa – dobbiamo passare inosservati, sono certo che ci staranno cercando almeno quaranta pattuglie di caramba.
"Che cosa? – drizzai le orecchie – gli sbirri ci stanno cercando?"
"Fratello, solo adesso ti rendi conto di quello che abbiamo fatto? Non mi stupirei se finissimo anche al notiziario." Mi fece segno di seguirlo e ci dirigemmo verso il nostro binario.
"Credevo che li avremmo liberati di un peso se ci fossimo levati dal cazzo." Continuai a meravigliarmi per l'andamento di quella serata. Mi venne la pelle d'oca, finalmente stavo di nuovo facendo qualcosa di pericoloso e il mio umore salì di nuovo come nelle montagne russe.
"Il contrario. Li abbiamo messi in merda, avranno già avvisato le nostre famiglie, guarda che hanno delle responsabilità nei nostri confronti!" Feci spallucce e cercai con tutto me stesso di fermare quel maledetto tremolio: era così umiliante tremare come un cazzo di vecchio con il Parkinson.
Mi chiamavano così a scuola, 'il vecchio con il Parkinson' e avevo perso il conto di quante volte ero stato sospeso per aver ammazzato di botte uno dei miei compagni di classe, avevo perso il conto di quante volte avevo smesso di prendere le medicine per far sparire quel tremolio, avevo perso il conto di tutte le volte che mi ero fatto convincere nel riprenderle.
Smettevo sempre: chi diavolo non smetterebbe un qualcosa che ti fa sembrare più diverso da quello che sei già e che non funziona?
Peccato che in comunità fossi obbligato a fare come mi dicevano, altrimenti mi sarei dovuto sorbire uno dei loro sproloqui motivazionali della durata di mezz'ora nei quali mi dicevano che dovevo fidarmi di loro, che sarebbe andato tutto bene, che sarei stato meglio, che le cose sarebbero cambiate e bla bla bla.
La verità è che sì, le cose erano cambiate, in peggio però.
"Abbiamo fatto la cosa giusta" esordii dopo un po' e una nuvola di fumo volò via dalla mia labbra.
Finalmente arrivò il treno.
"Siamo ancora in tempo per tornare indietro" disse Ale, con un'espressione terrorizzata.
"Non si torna mai indietro." Lo afferrai per la manica della felpa e salimmo in fretta e furia, prima che avessi potuto cambiare idea anche io.
"Lo sai che ci prenderanno prima o poi?" disse Ale ed io mi accigliai.
"Amico mio, tu sei così ansioso perché pensi troppo al futuro, perché non stai in pace e ti godi il presente? Siamo finalmente liberi!" Mi stravaccai sul sedile di quel treno sudicio e incrociai le braccia al petto.
"Wow! Conosci Lao Tzu?"
"E chi cazzo è questo?"
"Il fondatore del taoismo."
"Mi spiace, non conosco nessun fondatore del terrorismo." Incrociai le braccia al petto e Ale scoppiò a ridere.
"T-a-o-i-s-m-o non terrorismo! – cercò di placare la sua risata quando si accorse della mia assoluta ignoranza – credevo lo conoscessi perché hai praticamente utilizzato un suo aforisma." Annuii, anche se non fui certo di cosa fosse un aforisma. Per questo odiavo quelli del liceo, usavano sempre queste parole difficili e dovevano per forza dimostrare agli altri che erano acculturati o più intelligenti di te!
Io non avrei fatto il liceo nemmeno in un'altra vita.
"Ovvero?"
"Se si è depressi si vive nel passato.
Se si è ansiosi si vive nel futuro.
Se si è in pace si vive nel presente."
"E questo chi sarebbe in sostanza?" chiesi scostante.
"Un filosofo cinese del VI secolo a.C."
"Allora ascolta il cinesino, come vedi è d'accordo con me!"
Perché mi stavo sentendo dannatamente inferiore? Non sapere chi fosse quel cinese era grave?
"Perché mi immagino già quanto saranno preoccupati per noi, per questo sono ansioso." Riprese il discorso di prima.
"A nessuno frega un cazzo di noi, gli educatori, gli assistenti sociali, le neuropsichiatre e gli infermieri sono pagati per far finta di preoccuparsi. Ma è questa la verità, al massimo sono preoccupati del fatto che sono nella merda per la nostra fuga, nulla di più."
"Ma..."
"Capisci che allo Stato non frega niente di quelli come me e te? Fidati, se spariamo sono addirittura contenti, non sai ancora come funziona il mondo, Ale? Conosci i filosofi cinesi e non sai questo?"
"La mia famiglia sarà preoccupata."
"Beh, questo è diverso. Almeno tu hai una famiglia." Guardai fuori dal finestrino.
"E anche tu. Solo che vedi tutto negativo."
"No! – mi sedetti composto – hai mai visto uno dei miei parenti venirmi a trovare? O ti ho mai raccontato della chiamata che ho fatto con uno dei miei familiari?"
"No." Gli angoli della sua bocca si incurvarono.
"Per te è diverso invece, ho visto che l'altra volta c'erano i tuoi genitori e ti invidio onestamente." Lo trucidai con lo sguardo.
Lui aveva tutto: era bello, faceva il liceo, era intelligente, era di sicuro pieno di soldi e presto la sua faccenda si sarebbe risolta, era innocente dopotutto.
Io non avevo niente, ero solo un povero ragazzo anonimo, ero stupido, dislessico, non amato.
Inaspettatamente allargò le braccia e le strinse attorno a me.
"P-perché mi stai abbracciando?" Il tremolio peggiorò e la testa iniziò a girarmi.
Nessun maschio mi aveva mai abbracciato. Nemmeno mio padre.
Mi sentii al sicuro, in un posto nel quale nessuno mi avrebbe potuto fare del male, pensai di essere in una casa calda quando fuori piove.
Mi sentii ansioso, perché iniziavo a non avere il controllo di ciò che stavo provando.
Mi sentii sereno, finalmente qualcuno stava facendo qualcosa di dolce nei miei confronti.
Mi sentii a disagio, mi stava dando fastidio quell'abbraccio.
Alessandro si staccò e quel senso di vuoto piombò nel mio stomaco, come un ascensore destinato a precipitare.
Perché si era staccato? Anzi, perché si è attaccato a me?
"Non farlo mai più!" Lo rimproverai e quel solito senso di inadeguatezza invase ogni centimetro del mio corpo. Era tutto una presa in giro. Sentivo che gesti come quelli fossero solo inganni volti a farmi impazzire ancora di più.
Abbracciandomi aveva completato tutta la mia murata, ma staccandosi aveva tolto il tassello centrale, facendo cadere tutti i mattoni di conseguenza e se avesse fatto altre cose simili come mi sarei sentito?
"Che c'è, hai paura di scoprire di essere gay?" Ci scherzò sopra. Fu un bene.
"Certo che no. Sono sicuro che mi piaccia la figa al 100%" Cercai di ricomporre i miei mattoni.
"Anche a me, sta' tranquillo." Alzò le mani in segno di resa, anche se non avevo frainteso nemmeno per un secondo. Avevo solo pensato fosse... strano.
Calò un silenzio imbarazzante da parte mia e uno sincero da parte sua, durante il quale non staccai gli occhi dal finestrino.
"Quando le porte si apriranno, dovremo correre."
"Dici che c'è la pula in stazione?"
"È ovvio! Ci stiamo rifugiando in un luogo scontato!"
Appena il treno si fermò feci come mi aveva detto: corremmo proprio come avevamo fatto per scappare dalla struttura, mischiandoci al viavai di persone di corsa per un treno in partenza.
Non mi stupii nel constatare che Ale aveva ragione, un'altra volta.
"E se le chiavi non ci sono?"
"Fossero." Mi corresse e gli feci il dito medio.
"Se le chiavi non ci fossero, rimarremmo qua fuori."
Salimmo gli scalini di quell'abitazione e il mio amico si fiondò sul portaombrelli.
"Bingo!" Estrasse il mazzo di chiavi e aprì immediatamente la porta.
"Mi raccomando, non dobbiamo fare casino" sussurrò Ale e feci per accendere la luce.
"Sta fermo! Così ci scopriranno!" Mi schiaffeggiò la mano e mi trascinò per un braccio.
Aprì il frigo e come immaginammo era occupato solo da qualche alcolico. Oro per i miei occhi.
"Alla salute!"
Ci scolammo due bottiglie intere di Barbera e ci sdraiammo sul pavimento.
"Non hai dell'erba?" La mia voce rimbombò per tutta la casa. Immaginai fosse enorme.
"Ma ti pare socio! Sarebbe un sogno!" gridò.
"Tu sei un figlio di papà, non è così?"
"Sì. Da cosa l'hai capito?"
"Sento la vostra puzza da kilometri! E poi non ci va chissà quale genio cazzo, tuo padre ha un macchione pauroso, hai una casa qua, una a Milano, fai il liceo... però non ti schifo, la comunità ti ha santificato." Cercai a tastoni la sua spalla e gli diedi diverse pacche.
"Che figlio di troia." Scoppiò a ridere e mi trascinò nella sua risata contagiosa.
"Cazzo, mi viene da sboccare." Mi rannicchiai su un fianco e pregai di non vomitare.
"Ci credo! Mai mischiare alcol e farmaci caro mio" disse in tono cantilenante.
"Dov'è il cesso?"
"Mi stai simpatico lo sai? Era da tempo che aspettavo una persona come te."
"Una persona come me, cioè?" domandai nauseato.
"Carismatica."
Il nostro dialogo venne interrotto dal rumore di una porta in frantumi.
"Mani in alto!" Qualcuno accesse la luce e ci accecò.
"E voi chi cazzo siete?" Ci sedemmo meccanicamente e si presentarono quattro tizi davanti ai nostri occhi.
"Cosa ci fate in questa casa?" domandò uno di loro, ma non fui in grado di mettere a fuoco.
"Che cazzo ci fate voi in casa mia?" Ale sventolò il mazzo di chiavi.
"Siamo scappati dalla comunità e quindi..."
"Rik!" Il mio amico mi diede uno schiaffo.
"Ormai siamo stati sgamati!"
"In realtà i vicini ci avevano parlato di una rapina."
Intervenne uno vestito da carabiniere.
"Oh, lo sapevo! Quand'è che Pina si farà i cazzi suoi!" Ale si mise le mani sui capelli e si innervosì.
Non ricordo altro di quella notte, solo che il giorno dopo mi svegliai con un dolore terribile alla testa e con il letto di fianco a me vuoto.
E Ale? Dov'era? Mi avevano sottratto anche lui?
Mi alzai immediatamente e corsi per il corridoio.
"Ale?" chiamai il suo nome e due mani mi afferrarono le spalle.
"È in seduta, adesso" disse Luisa con un tono severo. Non si era mai rivolta così a me.
"Ti aspetta la dottoressa." Mi accompagnò fino alla sala infermieri e chiuse la porta.
"Siediti" ingiunse la Azito ed io obbedii, ancora troppo disorientato per oppormi.
"Non sono qua per castigarti o punirti, voglio solo sapere... perché?"
"Perché sono scappato?"
"No, quello lo so già. Perché continui a mettere a rischio la tua vita? È questo ciò che voglio sapere." Avevo messo a rischio la mia vita?
"Stanotte hai avuto gravi difficoltà respiratorie e hai vomitato. Stai rovinando il tuo corpo e lo devi tenere caro per almeno altri sessant'anni!"
"Pff, non penso ci arriverò."
Appoggiai il tallone sul mio ginocchio e formai un triangolo rettangolo con la mia gamba destra.
"È successo qualcosa che io non so?" Cercò ancora di strizzare il mio cervello, con scarsi risultati.
"No." Guardai un punto fisso a terra.
Io ci volevo provare sul serio. Avrei fatto di tutto per diventare normale, eppure qualcosa mi suggeriva che ciò avrebbe implicato un cambiamento radicale in me, impegno, costanza, caratteristiche che non avevo.
Come le avrei spiegato che mi sentivo euforico e depresso nello stesso momento?
Come le avrei spiegato che mi sentivo costantemente inadeguato, non importava dove fossi e con chi fossi.
Come le avrei spiegato che non avevo cercato di legare con nessuno dei miei compagni perché davo per scontato che mi avrebbero abbandonato e non sarei riuscito a sopportarlo?
Come le avrei spiegato la mia voglia ardente di morire e di vivere la vita al massimo?
Come le avrei descritto quel vuoto che sentivo dentro e che ormai aveva prosciugato qualsiasi mio organo?
Come le avrei spiegato che avevo bisogno di sentirmi amato, ma appena qualcuno mi abbracciava mi sentivo a disagio?
Come avrei spiegato quel senso perenne di caos?
Come le avrei spiegato che la notte spalancavo gli occhi e vedevo Alessia? Come le avrei spiegato che lei mi mancava?
Come le avrei spiegato il mio egocentrismo e l'odio per me stesso?
Come le avrei spiegato che non sapevo nemmeno io il motivo per il quale continuavo a mettermi in pericolo?
Come le avrei spiegato che amavo terribilmente mia madre e la odiavo perché lei non amava me?
Come le avrei spiegato che mi sentivo totalmente scollegato da me stesso?
Come le avrei spiegato che non sapevo nemmeno io quale fosse la mia identità e che cosa mi piaceva?
E come le avrei spiegato tutto questo?
"È che... – tentai e strinsi gli occhi – io ci sto provando sul serio." Serrai la mascella, come se qualcuno mi avesse appena bucato con un ago da qualche parte.
"Io vorrei essere come gli altri, lo giuro, ma non riesco, sono solo un peso per tutti, fallisco in tutto ciò che faccio e..." Quel buco nero iniziò a diffondersi fino ad arrivare in gola, era quello che mi impediva di parlare.
"Dimmi che cosa senti." La dottoressa mi incitò a parlare e i miei occhi iniziarono a lacrimare.
"Io non riesco..." Mi misi le mani sui capelli e mi accasciai a terra.
"Io non lo so come mi sento, mi sento felice e triste allo stesso tempo, che cazzo significa! Io sto impazzendo, lo giuro, portatemi in Svizzera e uccidetemi voi siccome io sopravvivo sempre! Non riesco più a sopportare tutto questo casino, la vita non è fatta per me!"
La dottoressa mi sollevò come se fossi un pupazzo e mi sedetti su quel pavimento testimone di tanti pazzi come me.
"Noi non ti portiamo da nessuna parte perché tu non molli, mi hai capito? Lo so, è una strada lunga, davvero lunga, ripida, in salita, sei pieno di ferite aperte e c'è pure un sole che spacca le pietre; hai idea di quante volte inciamperai e ti farai ancora più male? Hai idea di quante volte ti sembrerà di non vedere più una fine e vorresti non aver mai iniziato quella maledetta salita? Hai idea di quante volte il sole ti farà bruciare quelle ferite?"
"Sì, ne ho idea!" Continuai e piagnucolare e tirai su con il naso, invano.
"Quindi hai idea di quanto sia fottutamente faticoso, difficile e stancante, no? – annuii più volte – ma ti posso assicurare che c'è un traguardo, c'è una fine oltre quella salita; anche se per il momento non la vedi, ti garantisco che c'è!"
"E io come faccio a vederla?" Continuai a singhiozzare.
"Alza quel cazzo di culo, levati di dosso la terra e va avanti! Anche se non hai più le forze, le gambe sono stanche e non hai più fiato, è quello il momento in cui devi andare avanti!"
Per la prima volta, avevo permesso alle sue parole di entrarmi nel cuore.
Una piccola, minuscola, insulsa voce mi supplicava di darle ascolto, che forse quella sarebbe stata la volta giusta e la mia vita sarebbe cambiata.
L'altra voce, più forte, grande, realista mi diceva che no, non avrei dovuto darle ascolto e che la mia vita non sarebbe mai cambiata. Quelli come me non facevano mai una bella fine.
"È che... ho paura." Mi stropicciai gli occhi.
"Lo so, ma tu sei coraggioso. Prendi la tua vita in mano Riccardo, non sai quanto possa essere meravigliosa."
"E chi ti dice che lo sono?"
"Perché tu vuoi vivere in realtà, per questo non sei ancora morto, tu vuoi vivere. La vita è per i coraggiosi, i vigliacchi la rifiutano, anche se apparentemente sembrano loro quelli coraggiosi."
Mi tese una mano per rialzarmi e la accettai.
Un'ultima possibilità. Un'ultima possibilità e se fallisco anche questa volta, è l'ultima volta che ci provo
"Che cosa devo fare per guarire? Dimmelo tu, io non so più dove sbattere la testa!"
"Adesso provo a cambiarti qualche farmaco, però devi dirmi se noti miglioramenti – annuii più volte – devi semplicemente dirmi cosa c'è che non va e tutti noi saremo sempre pronti ad aiutarti." Annotò qualcosa sul suo taccuino.
"E cosa dovrei fare?"
"Voler guarire. Questo e basta."
"Solo questo?"
"Solo questo per iniziare. Tu e Ale non sarete più compagni di stanza, non prenderla come una punizione."
La neuropsichiatra fu interrotta da qualcuno che bussò alla porta e questo bloccò la mia ira: ovviamente l'avevo presa come una punizione.
Come avrei fatto senza Alessandro, adesso?
Lo conosci letteralmente da un giorno, svegliati idiota.
"Riccardo, c'è qualcuno per te." Annunciò Luisa e saettai immediatamente in piedi.
Finalmente mamma si era fatta viva? Era papà? Alessia?
Forse aveva ragione la dottoressa: avevo un compito semplice dopotutto, ovvero quello di desiderare la mia guarigione.
Sì, ce l'avrei fatta, sarei guarito, mamma mi avrebbe accettato più facilmente e finalmente sarei stato felice.
Corsi nell'ufficio degli educatori e quando vidi la persona che mi stava aspettando non seppi se essere triste perché non si trattava mamma oppure felice lo stesso perché qualcuno voleva farmi visita.
"Jessica?"
Che cosa ci faceva la mia infermiera preferita della neuropsichiatria qua?
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Io e te. Il resto non conta.
Novela Juvenil[IN FASE DI REVISIONE] Nella tranquilla cittadina di Adrogué, la vita di Amanda, una ragazza appena uscita dalla sua quinceañera, sta per prendere una svolta inaspettata. Dopo aver scoperto che l'uomo che ha sempre chiamato padre non è tale, Amanda...