Capitolo 9

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Aprii di scatto gli occhi e vidi tutto buio.
Controllai immediatamente l'ora: le 5:15.
Scostai le lenzuola e mi diressi verso la porta; abbassai la maniglia lentamente e uscii dalla stanza.
Con passo felpato raggiunsi la cucina e aprii il frigo.
"Anche tu sveglia?" Jess fece capolino in cucina, ma non mi spaventò: avevo già udito i suoi passi inconfondibili avvicinarsi verso di me.
"Ho una gran sete – tirai fuori la bottiglia d'acqua e mi allungai per agguantare un bicchiere – e tu? Come mai sei sveglia?"
"Non riesco a smettere di pensare a un paziente. Ieri lo abbiamo dimesso, stava bene. Oggi non c'è più."
Si legò i capelli in una coda disordinata.
"Jess, mi dispiace tantissimo." Mi sedetti di fronte a lei.
"Ho fatto un percorso lungo con lui, è stato ricoverato tre mesi, credevamo stesse meglio – si costrinse a non piangere – invece oggi si è tagliato la gola in un supermercato; ha aperto una scatola di latta e si è tolto la vita, come se nulla fosse."
Mi estraniai da quello che avevo appena sentito.
Mi rifiutavo di credere che cose del genere succedessero nella vita di tutti i giorni.
Che cosa potevi dire in momenti come quelli?
"Come fai ad andare avanti dopo che accadono queste cose?"
"Non lo so. Vai avanti e basta. Pensi 'poveraccio lui che non ha saputo apprezzare la vita' però io apprezzo la mia."
Appoggiai la mia mano sulla sua.
"Sono sicura che riuscirai a venirne a capo." Gliela strinsi.
"Scusami Am, non avrei dovuto..."
"Non fa nulla, davvero, anzi. Prima o poi voglio diventare forte come te." Sorrisi debolmente.
"Non ti serve la mia forza, lo dovresti sapere. Ne hai da vendere.
"Ti va un mate?"
"Hai portato una scatola!" Si rallegrò: quale argentino non si sarebbe rallegrato a quella proposta?
Preparai due tazze fumanti per entrambe e le zuccherai.
"Non hai ancora parlato con tua madre, non è vero?"
"Glielo dirò quando sarò sicura di aver superato il colloquio."
"Aspetta... che cosa mi sono persa?" Jess portò la tazza fumante alle labbra.
Le spiegai in breve la faccenda delle due teste rosse.
"Ma è fantastico! Tua madre sarebbe ancora più convinta nel farti trasferire qua. Ci penserò io a tutta la parte burocratica – sorseggiò il mate – sei un dono per noi, soprattutto per Riccardo."
Quelle parole mi sprofondarono nel cuore.
Glielo dico o non glielo dico?
Nascosi il mio viso nella tazza fumante e quasi mi scottai.
"Oh, conosco quell'espressione, avanti, cosa devi dirmi?"
Accidenti!
Io sono brava a fare finta di niente, lo ero qualche ora fa almeno!
"Nulla." Scossi il capo e inumidii le mie labbra.
"Avanti, sai che a me puoi dire tutto."
Appoggiai la tazza sul tavolo e mi schiarii la voce.
"Perché Riccardo è stato in comunità?"
Jess si alzò e andò a chiudere la porta del tinello, facendomi segno di abbassare la voce.
"La sua, vedi... è una storia davvero complicata, non ne ha mai parlato liberamente nemmeno a noi. Perché me lo chiedi?"
"Non lo so... mi destabilizza quel ragazzo."
"Che intendi?" Jess si allarmò immediatamente.
"A volte mi tratta davvero male, è un antipatico insopportabile. Altre si comporta come una specie di fratello maggiore, mi fa scenate di gelosia e mi dimostra affetto."
"Vedi Am, lui ha difficoltà a relazionarsi con gli altri. Non riesce ad avere rapporti omogenei ed equilibrati, o ti odia o ti ama – gli angoli della sua bocca di sollevarono – è il suo modo di essere.
Ma ti assicuro che ti vuole tanto bene."
"È proprio questo il punto, non mi conosce nemmeno e stravede per me."
"Lo avrai colpito – avvolse la tazza con le sue candide mani – tu non gli vuoi bene? Ieri siete stati in camera insieme per tanto tempo."
Un nodo mi strozzò.
Riccardo che piange
Riccardo che non riesce più a respirare
Io che lo stringo a me
"Ieri mi ha spaventata a morte." Rivelai.
Ero brava a fare finta di niente in un'altra vita, forse.
"Che cosa ha fatto?!"
"Ha pianto ininterrottamente."
"Lui non piange mai... com'è possibile?"
Mi sentii lusingata: Riccardo Rianaldi aveva pianto solo davanti a me.
"Gli ho chiesto perché fosse geloso di me e se per caso gli piacessi; allora mi ha detto che non era quello il punto e si è messo a piangere."
Ci riflesse una manciata di secondi e poi annuì amaramente: intuii che avesse realizzato quale fosse il reale motivo.
"Perché non mi hai chiamata?"
"Ho pensato di farlo, ma poi ho avuto troppa paura di fare la cosa sbagliata. Per ogni cosa che fa dice sempre 'non dirlo a Jess.'"
"Tu cerca di dirmi più cose possibili se vuoi davvero aiutarlo. So che gli vuoi bene, almeno un po'."
Non ero ancora pronta ad ammetterlo a me stessa.
"È che non voglio affezionarmi, non so nemmeno per quanto tempo devo restare qua."
"Tanto sei già affezionata, Amandina."
Quel dannato soprannome!
"Davvero, non mi piacciono quelli come lui. È un rompecorazones y picaflor."
"Lo è perché non riesce a trovare un equilibrio in nulla."
Si massaggiò le tempie.
"Lui non è in affidamento, lo avete adottato." Pensai ad alta voce. Ne parlava come se fosse suo per sempre.
"Magari fosse così semplice – sorrise – per passare dall'affidamento all'adozione ci va parecchio tempo. Però per me è come se fosse un figlio, se è questo ciò che vuoi sapere. È il figlio che ho sempre voluto, malgrado i guai che combina e il suo carattere. Però sì, io e Marco vorremmo adottarlo."
Mi chiesi se mia madre provasse l'affetto che provava Jessica per Riccardo.
"Quando ami una persona le dici sempre la verità?"
"Non sempre, ma fai di tutto per essere sincero. A volte mentire è necessario."
A volte mentire è necessario.
"Ho capito." Annuii più volte e finii l'ultimo sorso di mate.
Quindi stava dicendo che era necessario che mamma mi mentisse?
Passammo diversi minuti in silenzio, solamente i ticchettii dell'orologio riempivano la sala da pranzo.
"Buongiorno bellezze."
Marco aprì la porta delicatamente.
Accolsi il suo saluto con un gesto della mano, troppo stanca per dire qualsiasi altra cosa.
"Io torno a letto." Jess salutò il marito con un bacio sulla fronte e quest'ultimo si sedette vicino a me.
"Io e te dobbiamo parlare di un po' di cose, non è vero?" Mi disse dolcemente.
Tipo del fatto che io e Riccardo ti abbiamo seguito in un pub?
"Sai che l'altra volta non sono scappata per colpa tua, vero?"
Temevo che ci pensasse ancora.
"Certo che lo so Am, infatti sono qua per parlare proprio di questo. So che vuoi restare e immagino che Jess ti abbia rassicurata sul fatto che per noi non ci sono problemi di nessun tipo – annuii – volevo farti sentire il mio appoggio e dirti che anche per me sarebbe solo un onore."
"Grazie."
I miei occhi espressero tutta la mia gratitudine.
Non mi ero mai sentita così voluta in tutta la mia vita.
"So che vuoi provare l'ebrezza della scuola italiana." Sorrise.
"Sai bene."
"Ne ho già parlato a scuola, dovrai prima affrontare un colloquio con il preside, ma sono sicuro che non ci sarà alcun problema."
"Nessun test strano di ammissione?"
"No a dire il vero, quello è per i privatisti; la tua è una situazione diversa."
"E quale indirizzo dovrei scegliere?"
"Beh, ce ne sono tanti. Tu sai l'inglese, vero?"
"Me la cavo, perché?"
Sentii il sonno farsi pesante sulle mie palpebre e le socchiusi.
"Saresti più avvantaggiata con le lingue.
L'inglese lo sai, lo spagnolo ovviamente, il francese non penso – scossi la testa per confermare la sua tesi – però al secondo anno ci sono ancora i principianti; basterebbe che tu facessi i corsi pomeridiani."
Marco si alzò e si diresse in cucina, immaginai per farsi un caffè, infatti mi chiese:
"Vuoi un caffè?"
"No grazie, ho già dato – alzai la tazza di mate (ormai vuota ) – torno a dormire."
"Buonanotte cielito."
Arrossii di nascosto per quel nomignolo dolce e la sua intenzione affettuosa: i padri chiamano così le loro figlie.
Mio padre non lo aveva mai fatto, il mio finito padre ovviamente.
Chissà quello vero.
Chissà se lui sapeva di me, se anche lui mi stava cercando, se mi voleva.
Forse non ci si rende conto dei piccoli miracoli che accadono nella nostra vita, siamo sempre preoccupati di ciò che non accade.
Di qualsiasi cosa si tratti.
Sentii montare dentro la collera come la lava dentro a un vulcano poco prima di eruttare, perché non avevo mai avuto la vita che desideravo.
Ero solo casa, scuola, chiesa, ordini a cui bisognava obbedire, rabbia, insolenza...
Capitava molto spesso che venissi punita per la mia insolenza e arroganza.
Una volta dovevo uscire con Lucas e avevo deciso di mettermi un vestitino bianco.
"Dove credi di andare vestita così?"
Saverio mi aveva fatto trasalire come non mai, anche perché mi ero assicurata che dormisse prima di aprire la porta.
"Devo uscire." Avevo snocciolato.
"Ma ti sei vista? Questo straccio è trasparente, ti si vedono i capezzoli!"
Avevo abbassato lo sguardo timidamente: non era affatto vero, eppure mi vergognavo da morire.
"Solo i pervertiti come te vedono cose che, in realtà, non ci sono!"
Mi aveva dato uno schiaffo, uno schiaffo bello forte.
"Verrai sempre punita dalla vita per la tua arroganza e insolenza, prenderai tantissimi altri schiaffi se non cambi."
Non mi ero mossa, non avevo proferito parola e soprattutto non avevo pianto.
Non avevo mai pianto davanti a lui, non mi aveva mai visto versare una lacrima, almeno, quasi mai.
Non ho mai voluto dargliela vinta: era come se piangere davanti a lui implicasse che avesse potere su di me e in effetti era così.
Per una vita intera mi aveva fatto vergognare di cosa indossassi, di qualunque cosa dicessi, della mia persona... Per non parlare dell'ossessione di mia madre rispetto al giudizio degli altri.
Ma non glielo avrei mai dimostrato.
Mi sdraiai sul letto e mi preparai mentalmente per quel colloquio con il preside.
Pensai ai vestiti che avrei indossato, alle possibili domande e alle possibili risposte.
Attesi tanto quel giorno, il quale non tardò ad arrivare.
Bussammo alla presidenza.
"Avanti."
Entrai per prima e ci fece accomodare su quei tipici divani ingannevoli che hanno un'aria più comoda di quanto lo siamo realmente.
Solo i computer e i monitor sulle due scrivanie suggerivano che fossimo nel ventunesimo secolo.
"Tu dovresti essere Amanda Andrade – allungai la mano e me la strinse – io sono Paolo Rossi."
Mi chiese perché fossi in Italia, perché ci tenevo a continuare gli studi, quale indirizzo avrei scelto, se avessi particolari difficoltà con la lingua italiana.
"Le lezioni inizieranno il dodici settembre. Sii puntuale e dimostrami che ti meriti di stare qua."
Marco mi aveva accennato che fosse una delle migliori scuole di Torino e che avesse sempre moltissime richieste di iscrizione.
Feci appello a tutte le mie forze per non storcere il naso.
Dimostrami che ti meriti di stare qua.
Dove eravamo? Ad Harvard?
"Certamente."
I miei angoli della bocca si sollevarono per formare una smorfia travestita da sorriso.
"Potrai venire da me per qualsiasi dubbio, problema o perplessità." Mi strinse la mano per salutarmi e mi alzai.
"Arrivederci." Lo salutai cordialmente e rivolse un saluto più informale a mio zio.
"Dici che mi starà simpatico?" Gli domandai, una volta in macchina.
"Sì, io dico di sì."

Io e te. Il resto non conta.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora