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La poca luce che penetra attraverso la finestra mi costringe ad aprire gli occhi, ma non si tratta solo di questo: qualcuno mi sta accarezzando il viso. Per un attimo credo di star sognando ma, poco dopo, capisco che sta accadendo davvero.
"Papà" dico assonata, una volta aperti gli occhi.
"Buongiorno tesoro, dormito bene?" Un tono calmo e rassicurante si fa spazio nelle mie orecchie, ricordandomi di quando ero bambina e la mamma mi svegliava per non farmi arrivare tardi a scuola.
Non lo faceva con cattiveria o alzando la voce, manteneva sempre la sua dolcezza che tanto amavo e che mi manca da morire in questo momento. Provo a guardare meglio mio padre mentre cerco di evadere dai ricordi. "Magari fosse un buon giorno" mi lamento toccandomi il volto con una mano.
Sono sudata, devo aver passato una notte terribile per essermi ridotta così, non fa neppure caldo.
"Immagino sia stato pesante ieri."
"Più che pesante, è stato tremendo." "Tranquilla, ti ho preparato un caffè per la sbornia."
Mi porge la tazza che ha in mano, una di colore blu con un viso sorridente disegnato sopra.
Persino gli oggetti sono più felici di me oggi.
"Ma non sono ubriaca" rispondo, ripercorrendo mentalmente la scorsa notte.
Avrò bevuto massimo due bicchieri di un succo un po' corrotto, nulla di eclatante.
"Ieri sera sembrava, continuavi a dire frasi sconnesse, hai parlato di un certo Aaron e di come l'hai fatto volare in aria."
Mi siedo immediatamente.
"Ho detto così?" domando, fallendo nel mascherare questo mio improvviso disagio.
"Già, di sicuro avrai bevuto troppo, faccio bene a preoccuparmi. Spero che almeno avrai imparato dai tuoi errori" risponde, insistendo per darmi il caffè.
"Cavolo" sussurro prendendo la tazza e respirando il forte aroma che invade le mie narici.
Ricordo poco della scorsa sera ma una cosa è certa:
io non ero ubriaca e ho davvero spinto Aaron con una forza disumana, ecco perché sono scappata, perché ho avuto paura di me stessa, per la prima nella vita non a causa dei miei occhi neri.
Mi preparo ed esco di casa.
Il cielo è ricoperto di nuvole e l'aria fredda della prima mattina picchia sul mio viso.
Alec, che ha appena varcato la soglia di casa sua, si avvia alla macchina parcheggiata nel vialetto. Il suo sguardo si punta su di me e mi saluta con un gesto della mano che ricambio con imbarazzo.
"Bella macchina, è una BMW?" domando.
"Sì, era di mio nonno, è l'unica cosa costosa che mi abbia regalato" risponde accarezzando il parabrezza dell'auto.
È di colore nero, ammaccata sul davanti ma, nonostante ciò, ha ancora il suo fascino.
"È figa, scommetto che arrivi sempre a scuola in orario grazie a quella" dico ricordando tutte le volte che sono arrivata tardi a Manhattan, correndo a piedi il più velocemente possibile per non trovare il cancello già chiuso.
"Se vuoi ti do un passaggio, siamo vicini di casa e non abbiamo ancora avuto l'onore di conoscerci" dice accennando un sorriso.
"La storia del topo è bastata, credimi." Alec, attraverso una risata nervosa, mi porta a capire che non ha affatto dimenticato.
In fondo, come avrebbe potuto? Nessuno scorderebbe un incontro del genere.
"Scusa per quello, volevo essere d'aiuto, in città non ho molti amici e...non so, pensavo che tu..." parla toccandosi più volte il ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte, come fosse un tic di qualche tipo.
Alec ha l'aria di un ragazzo gentile, forse troppo per una stronza arrogante come me, eppure sento che mi farebbe bene parlare con una delle persone più normali in questa città. "Sai una cosa? Va bene" rispondo.
"Va bene cosa?"
"Va bene per il passaggio."
"Oh, sul serio?"
Mostra sorpresa, a tratti sconvolgimento.
"Sul serio. Dai, fammi salire."
Mi avvicino a lui che pare attonito. L'ho lasciato senza parole, ma è questo a divertirmi.
"Ne sei davvero sicura?" continua a chiedere.
"Ti ho detto sì. Sarà meglio andare subito se non vogliamo fare tardi." Ricambia debolmente il mio sorriso, dato che è molto timido.
"Ok allora, andiamo" dice pochi secondi dopo, aprendo per me lo sportello.
Salgo a bordo dopo avergli rivolto un ultimo sguardo amichevole e averlo ringraziato per il suo gesto di cortesia.
Arriviamo a scuola alle 8:00 precise e gli studenti ci guardano straniti, forse perché la ragazza nuova si è fatta dare un passaggio da quello che definiscono strambo, ed è davvero brutto come concetto, seppur essendo tristemente reale.
"Ora ti fisseranno tutti, mi dispiace" dice Alec scendendo insieme a me dalla macchina.
"Lo facevano già, non ti preoccupare, e poi non capisco, che hanno contro di te?" domando poco contenta.
"Non ne ho idea e, anche se lo sapessi, non potrei fare nulla a riguardo; la gente qui trova sempre un modo per odiarti."
Lo comprendo molto, quindi gli tocco una spalla, prendendo coscienza del mio gesto inaspettato solo dopo averlo fatto.
Il legame che mi attira già ad Alec è forte, lo stesso che avresti con un vecchio amico d'infanzia ritrovato dopo tanti anni per pura coincidenza. "Ci faremo compagnia insieme nel club di quelli che non piacciono a nessuno, allora" dico tentando di mantenere una minima parvenza di tranquillità, mentre le mie emozioni lottano tra loro.
Non sono mai stata una persona espansiva, ma Alec è l'unico a New Hope a farmi sentire ancora una ragazza normale.
"Sembra una bella prospettiva."
Ride seguito da me, che sarei più propensa a piangere per la disperazione.
Non appena distolgo gli occhi da Alec, incontro quelli di Justin che ci sta fissando da lontano con irritazione. Non risulta per nulla felice di vederci insieme.
Ricambio il suo sguardo con uno distaccato, poi inizio a camminare, ignorandolo.
Non ho bisogno di un uomo che mi protegga, c'è già mio padre a occuparsi di questo e Justin è ancora uno sconosciuto per me.
Le ore passano e finalmente arriva il momento di mangiare.
Sono intenta a cercare un posto in sala mensa, i miei occhi viaggiano lungo l'intero perimetro della stanza ma noto subito che tutti i tavoli sono già occupati.
Stringo il vassoio tra le mie mani, sospirando, rassegnata a dover mangiare in cortile, dove non ci sarà anima viva.
Non che la prospettiva non mi alletti, ma speravo di poter socializzare, in qualche modo.
"Zoe, vieni a sederti qui" dice Sam sventolando una mano verso l'alto. Non mi ero accorta che ci fosse anche lei e che, per fortuna, è seduta da sola. Mi avvicino al suo tavolo e prendo posto, sorridendo poi timidamente. "Tesoro, guarda che stile hai oggi, mi piacciono i capelli raccolti, mettono in mostra quel bel visino" commenta.
Ho legato i capelli per non morire di caldo; dalla scorsa sera la mia temperatura è aumentata inspiegabilmente.
"Il bel visino?" chiedo reprimendo una risata.
"Andiamo, non vorrai dirmi che nessuno ti ha mai fatto dei complimenti?"
"I parenti alle cene di Natale valgono oppure...?"
Alza un sopracciglio, non potendoci credere.
"Ok, ogni tanto è capitato, ma sempre da idioti di cui non mi importava nulla, e tutti i complimenti erano accompagnati da commenti sui miei occhi" continuo, ottenendo così uno sguardo meno divertito da parte sua. "Non hai idea di quanto ti capisca. Devi fregartene, noi siamo speciali, molto più di quanto credi."
"Speciali o inquietanti, dipende dai punti di vista" rispondo.
"Speciali, senza ombra di dubbio" interviene Justin sedendosi accanto a me.
Mi irrigidisco sentendo la sua presenza al mio fianco e aumento la stretta sulla forchetta.
"Justin, ma che sorpresa!" esclama Sam guardandolo con un ghigno di provocazione.
"Spiacevole per qualcuno, forse" aggiunge riferendosi a me che non posso far a meno di odiarla.
"Sam, mi potresti lasciare da solo con Zoe, solo un minuto?" domanda lui.
"No" protesto subito.
"Sam."
Gli basta guardarla autorevolmente per farla tornare seria e metterla con le spalle al muro.
"Mi dispiace tesoro, ma credo che voi due dobbiate parlare" risponde Sam alzandosi da tavola.
Provo a ribattere ma lei sta già andando via, lasciandomi da sola con l'ultimo ragazzo con cui avrei voluto intraprendere una conversazione. Quello che è accaduto, il terremoto e la mia forza alla Hulk, niente ha il ben che minimo senso logico e Justin non sembrava sorpreso nel vedere Aaron in quello stato dopo una mia semplice spinta; deve pur significare qualcosa. "Ti ho vista con Alec stamattina, cosa c'è tra di voi?" domanda Justin senza darmi il tempo di metabolizzare la faccenda.
"Credi davvero di essere nella posizione di farmi domande del genere?" rispondo infastidita.
"Devi stare attenta a quel tipo, è un ficcanaso, probabilmente vuole solo indagare sui tuoi occhi neri e su quello che sei davvero."
"Quello che sono davvero? Che vorrebbe dire?" altre domande iniziano a tormentarmi.
Che cosa succede a New Hope? Quale oscuro segreto fa parte di questa città già di per sé piena di misteri?
"Andiamo, lo sai bene, sei diversa dagli altri, ma non da me, noi due abbiamo qualcosa che ci lega e dovresti darmi retta."
"L'unica cosa che ci lega è il colore dei nostri occhi e, se potessi, i miei li cambierei, quindi..."
Non mi lascia finire.
"È una stronzata! Forse ancora non lo capisci ma quegli occhi ti hanno ridato la vita, non parlerei così se fossi in te."
Ora la mia confusione è lampante. Justin è più folle del previsto.
"In che modo mi avrebbero ridato la vita? Hai idea di quante volte mi sia sentita chiamare strana o spaventosa? Tu non sai nulla di me" parlo furiosamente, stanca delle sue inutili affermazioni da psicopatico.
"So che sei speciale e spero che prima o poi te ne renderai conto."
Dopo averlo detto, mi guarda con decisione per farmi capire che pensa davvero ciò che sta dicendo.
Non ho il coraggio di ricambiare per troppo tempo ma, per quel poco che lo faccio, le mie emozioni si amplificano.
Se ne va quando smetto di guardarlo e osservo il piatto ormai quasi vuoto, incapace di formulare qualsiasi pensiero intelligente.

Undead (ritorno a New Hope) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora