Il dolore è immobile. Forse sapete cosa intendo, forse potete capire. Incolla a terra, annienta i pensieri, schiaccia il respiro. Ed è chiuso, piccolo, il dolore. Ti afferra e arrotola attorno a sé, ne diventi la pelle. Lui, il cuore.
La prima volta che l'ho sentito mettere radici nel mio animo incontaminato dalla vita, sono cresciuta. Mio padre - e chi, se no? - si era appena portato via gli ultimi oggetti personali, e io non riuscivo a muovermi. Sedevo sul divano del salotto, a Verderaso, con gli occhi puntati sui colori accesi del prato, mentre mia madre e mia sorella si rincorrevano a vicenda con le lacrime lunghe fino al mento.
C'era un'afa greve, quel giorno, io invece avevo tanto freddo. Allora, solo la carezza della mano rugosa di nonna Ines mi aveva richiamata alla realtà. Che non era altro che l'accettazione di un vuoto. Una sedia non occupata alla nostra tavola, un sorriso in meno alle recite di fine anno, una casella non compilata alla voce "genitore" sul foglio del permesso per le gite scolastiche. E con il tempo, nel diventare donna, un esempio che modestamente mi indicasse la strada dall'alto delle minuscole accese verità che gli erano state tramandate: quella guida, alla fine, l'ho trovata e sostituita con un vecchietto dagli occhi a mandorla di nome Satoshi, minuto eppure profondamente carismatico, e con un sapere che mai mi sarebbe appartenuto, altrimenti. Sì, sono andata avanti saltando i vuoti. Fino al totale rifiuto di imparare a nuotare, l'unica grande passione di papà; e per superarlo ci sono voluti più di trent'anni, passando per un battaglione di bagnini rifiutati e sconfitti e un mezzo annegamento in piscina, ma soprattutto ci è voluto un giovane straniero nato in acque ben più agitate delle mie. Ömer.Roba così, roba da scuotersi dalla rabbia, a ripensarci. Ma, che volete, il dolore per me è sempre stato immobile.
Anche adesso, piena del mio dolore, me ne sto ferma, rannicchiata su un piano di metallo ghiacciato, primo posto di una lunga fila di posti dai braccioli luccicanti sotto i neon del corridoio che odora di disinfettante e trabocca di rumori. Non un vociare, no, solo rumori. Ascolto, e basta. Le ruote cigolanti di un carrello pieno di lenzuola da lavare, porte che sbattono, delle sirene spiegate e lo sferragliare di altre barelle, una delle luci che sfrigola sul soffitto.
E penso.
Penso che ho passato mesi inchiodata alla balaustra del terrazzino di casa, con gli occhi schiacciati contro la cupola della cattedrale, gonfia tra i tetti. Sole e stelle si alternavano senza che me ne accorgessi. E io lì, a sperare che Alessandro Aslan si decidesse a tornare, perché - almeno lui - non mi avrebbe mai abbandonata. Era solo questione di attesa. E un bel giorno è tornato, Aslan; un altro mi ha baciata, un altro ancora abbiamo fatto l'amore. È buffo, inspiro i suoni che mi circondano: gli ho appena promesso di restargli accanto per tutta la vita - evet, io ti sposo, Ömer Aslan! - e mi ritrovo in questa saletta ricoperta di linoleum verde, male illuminata e ancora zeppa dei sospiri di sconosciuti che mi hanno preceduta, e non so se sarà lui, invece, ad andarsene per sempre, per primo.
Yuri posa la sua mano calda sulla mia. Ha lo sguardo puntato sulle porte scorrevoli del pronto soccorso, che hanno inghiottito Ömer e gli infermieri e il medico che erano sull'ambulanza con lui.
"Andrà tutto bene" mi sorride, con le palpebre semi chiuse. Vede offuscato, forse peggio del solito quando è preda dell'agitazione, com'è ora. "Questa assurda aggressione sarà solo un brutto ricordo. Credimi, Ros".
Lo guardo, ha uno zigomo tumefatto. Yuri e i suoi occhiali tartarugati spezzati a metà, che gli spuntano da una tasca. "Vorrei tanto avessi ragione", gli stringo la mano che trema e avverto una preghiera salirmi alle labbra: Dio solo sa come abbiamo fatto a raggiungere l'ospedale senza schiantarci alla prima curva. Ma per fortuna siamo qui, interi, ad aspettare che qualcuno torni indietro e ci dia notizie di Aslan.
STAI LEGGENDO
Crisantemi fritti tutto l'anno
RomanceSeguito di Crisantemi fritti a colazione (Vincitore Wattys 2020). Quella non era una verità come tutte le altre. Cosa avreste fatto voi, se foste stati al mio posto? Avreste aperto la lettera oppure ve la sareste dimenticata, fingendo di non sapere...