28. Un usignolo

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Lui lo sapeva.

Questo pensiero si riaccende mentre i lampioni, che costeggiano il viale, entrano in funzione. Mi travolge così, il ricordo. Avverto il sangue ribollire sotto la pelle. E, intanto, stringo la rosa rossa e il biglietto in un solo pugno.

"La nuvola è passata e ha lasciato le sue lacrime sull'erba. Ecco, se posso permettermi, non è un modo di dire, signor Aslan".

I lampioni sfilano come alberi al nostro rumoroso passaggio e, uno dietro l'altro, lanciano il loro bagliore sul tergicristallo appannato, in un incrocio di ombre e coni di luce.

Rossella, ma come ti sei permessa? Osi correggere l'amministratore delegato, adesso?

Abbandono la testa all'indietro, mentre le molle dei sedili del furgoncino del Pan per Focaccia accompagnano la nostra corsa a sobbalzi con insistenti cigolii.

"Non capisco. Puoi ripetere?".

E subito sono suoi gli occhi che mi si schiudono davanti, curiosi felini affamati, e si allargano, d'un colpo, insieme ai miei. Aslan me li punta addosso, agitati da un bagliore che non ho mai incrociato prima, in un altro paio d'occhi. Mai negli occhi di un uomo.

È stato in quel momento che Ömer mi ha vista per la prima volta, che mi ha vista davvero.

"Forse non lo sa, ma sono i versi di una canzone. Ha appena citato i versi di una canzone, signor Aslan".

Sorrido e inspiro. Che sciocca, avventata e sciocca, sono stata quel giorno. La riunione seduti sul tappeto intarsiato, i bicchieri di çay sul vassoio al centro, uno sconosciuto troppo affascinante per sembrare vero, e un po' troppo inflessibile: non c'è dettaglio che resti inghiottito nelle trame del tempo, tutto è perfettamente nitido. Si frappone alla strada che osservo scorrere sotto il cofano.

"Sì, sono i versi di una canzone".

Ma lo sapeva, lui l'ha sempre saputo. Che quella canzone era dedicata a me, che non ci potevano essere fraintendimenti, se ero in grado di tradurla: Samurai aveva davanti la Vasaia.

"Bulut geçti gözyaşları kaldı çimende".

Ricordo, ancora. La sua voce, la lingua dei suoi posti. Parla, Aslan, ed è me che riconosce. Sono io, la donna della canzone, io e nessun'altra.

"Sai, Ros...". Torno alla realtà, c'è qualcuno al mio fianco, al volante. Leonardo soffia palloncini con la gomma da masticare, li gonfia a raffica e nell'abitacolo aleggia aroma di fragola. È voluto restare, e non pretende un centesimo stavolta. "Pensavo...", medita e intanto aziona il tergicristalli.

"Mmm" mugugno, fingendo di essere soprappensiero. Lo osservo con la coda dell'occhio, Leo sta davvero cercando le parole adatte. Per cosa, poi?

"Niente", se ne esce infine. "Volevo solo dirti che è forte, Aslan". E intanto ingrana la quarta. "Ci sta che te ne sei innamorata".

"È forte?". Squadro il suo faccino spregiudicato, che adesso mi sembra tutto fuorché scaltro. Mi sembra tutto fuorché Leonardo.

Fa spallucce, si gratta un orecchio: "Siete una bella coppia. Non perdete la magia, okay?".

Accidenti, è proprio Leonardo, mi convinco. Sta crescendo e non me n'ero accorta.

Gli carezzo una guancia, ispessita dalla peluria: "Okay", lo rassicuro. Poi, scoppio a ridere: "Non ti facevo così sensibile, canaglia". Per un istante ho dimenticato Damiano, Le Fèvre e la scottante verità che sto per raccontare a Ömer. Forse, penso invece, questo ragazzino ha ragione: non dovremmo far altro che custodire la magia che ci ha uniti, io e Aslan. Ritrovare quello sguardo, le stesse note, gli stessi identici versi di quella riunione a gambe incrociate sul tappeto.

Crisantemi fritti tutto l'annoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora