26. Premonizione d'amore

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Sapete, c'è un modo di dire, in Giappone, che nessuno altrove è mai riuscito a tradurre: koi no yokan. La chiamano premonizione d'amore. Due persone si incontrano e, sin dal primo istante, capiscono di essere destinate, che non potranno non innamorarsi l'una dell'altra. Niente a che vedere con l'amore a prima vista, no: il koi no yokan è un presentimento più profondo, che mette radici e trova conferma solo con il passare del tempo.

Il maestro Satoshi me ne ha parlato una sera di molti anni fa, mentre ce ne stavamo seduti sui gradini della sua bottega nel centro di Firenze, aspettando che gli ultimi turisti decidessero cosa portarsi via, e finalmente chiudere per qualche ora, prima dell'avvento dell'alba.

"Ho guardato Midori, è stato un attimo". Lo rivedo, come lo avessi davanti, il maestro Sato. Gli occhi allungati che l'emozione arrotondava. "La corteggiavo da un po'. E ho pensato, ecco il koi no yokan. L'ho sentito, difficile spiegarlo. Quando verrà il tuo momento, mia cara giovinetta, capirai quello che intendo".

Quella sera me ne sono rimasta zitta, a pensare che fosse solo una leggenda, questa della premonizione d'amore. O che, per lo meno, fosse valsa solo per loro due, Satoshi e Midori, prima che la morte di lei decidesse di separarli, trent'anni dopo. Eppure, mentre di slancio lascio scivolare indietro la sedia del Barbosa, le braccia tese e la mani strette a pugno per affondare contro il cuore di Aslan, sento questo presentimento farsi largo - solo questo - tra tutte le emozioni che potrei provare nell'abbraccio impetuoso che non comando, semplicemente viene da sé.

Non è felicità, questa. Non è sollievo. Non è soltanto amore, pur grande immenso totalizzante amore, ciò che sento, rassicurata dalla dichiarazione inattesa di Ömer. È proprio koi no yokan. Quest'uomo mi è destinato. Me l'ha portato il vento.

Lo stringo a me, il viso schiacciato al suo petto. Il profumo inconfondibile contro la mia bocca. Aslan mi carezza i capelli, delicatamente, mentre il suo respiro mi solletica la guancia.

"Piangi?", scioglie con il pollice le lacrime che non riesco a trattenere. Lo guardo, e scopro due occhi rigati dall'emozione.

"Se io piango, tu sorridimi", provo a sorridergli a mia volta, scossa dai singhiozzi. "Sorridimi sempre, Ömer", inspiro a pieni polmoni la sua presenza, la traccia che ho di lui. Qui, per restare; qui, per me.

E lui lo fa, apre le labbra rosse e sorride e tutto rischiara, di nuovo di più.

Dove mi porti Ömer Aslan? Che cosa mi fai? Io mi perdo con te. Io rinasco sì, come recita la poesia del libretto che porti nella tasca del cappotto e forse hai ancora addosso: io rinasco con te. Eppure, non sono mai stata tanto me stessa, come in questo momento. Sono sandalo, lacrime e un sorriso bianco.

Io che so dire ti amo in una lingua soltanto, che non è la mia. Sono io, il baricentro a Istanbul. "Seni seviyorum", gli sussurro.

Aslan mi solleva il viso tra le mani. E, d'un tratto, ho paura.

"Non farlo", porto due dita alle sue labbra, che pure tanto bramo. "L'ultima volta che mi hai baciata, hai capito che non era ancora il nostro tempo. Potrebbe capitare ancora, e non voglio".

Lui scuote forte il capo: "È sempre stato il nostro tempo, amore mio. Ma non volevo accettarlo", si allontana. E poi, il sorriso che non si spegne, volge lo sguardo al mare: "Rientriamo in città", sembra salutare le onde. Quindi, torna a me, e con voce calda mi scuote il cuore: "Posso tenerti per mano?".

Il diasporo scivola nel mio palmo.

"Così, vedi?", mi dice con gli occhi pieni di sentimento.

Annuisco. Un'ultima esitazione sul Barbosa e lui, che come me sembra volersi incollare alle ciglia i dettagli di questo posto dove tutto tra noi comincia, e sempre, mi chiama a sé. E così ci ritroviamo a camminare vicini, mano nella mano, per un tratto di lungomare che pare troppo breve. In silenzio. Quel nodo di carne e ossa nel mezzo.

Crisantemi fritti tutto l'annoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora