CAPITOLO 6

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Can

Decisi di andare a correre, non mi andava di restarmene in casa, nonostante il sonno arretrato e lo stress di quegli ultimi giorni che mi aveva quasi sfinito. Emre aveva di nuovo insistito che io andassi alla serata di gala, ma avevo gentilmente declinato l'invito, non mi andava di stare in mezzo a tanta gente.

Correre mi rilassò, amavo farlo sul lungomare, il vento e l'odore della salsedine mi aiutavano a non pensare, sembrava quasi una magia, come se il mare si portasse via per un po' tutti i pensieri mesti, annullandoli.

Mi resi conto che di Istanbul quello era l'unico posto che mi sarebbe sempre mancato ogni volta che fossi andato lontano, amavo viaggiare e il mio lavoro mi portava nei luoghi più remoti della terra, esplorando confini che mai avrei pensato esistessero.

Raggiunsi la parte finale del lungomare, dove una distesa di scogli si apriva davanti alla Torre di Leandro nel mezzo del Bosforo. Mi fermai respirando a pieni polmoni l'aria salmastra e godendo del rumore delle onde che s'infrangevano sugli scogli. Poche persone passeggiavano lì, mentre, poco distante da me, una ragazza, seduta a terra su un masso, sorrideva persa nei suoi sogni. Quando si voltò per alzarsi, riconobbi quel dolce viso. Era la ragazza del panificio. Il mio cuore accelerò stranamente i battiti e mi venne inaspettatamente da sorridere. Mi chiesi se fosse il caso di avvicinarmi, ma non volevo spaventarla e non sapevo nemmeno cosa dire, per la verità. Ripresi il mio cammino per tornare indietro ma senza toglierle gli occhi di dosso. Cosa stavo facendo? Non ero il tipo da guardare le donne così, senza motivo. Le passai talmente vicino che feci in tempo ad afferrarla, aveva messo un piede in fallo e stava scivolando. Scattai verso di lei istintivamente e la presi fra le braccia. Vidi la paura sul suo viso, sicuramente sarebbe finita in acqua. Si aggrappò alle mie braccia stringendomi più che poteva. Il suo respiro era affannoso ma pian piano si calmò. Fu quando sollevò il suo sguardo nel mio che il mio cuore prese a battere come mai mi era successo in presenza di una donna.

«Stai bene?» le chiesi.

«Sì, grazie!» rispose con voce sommessa.

«Devi esserti spaventata» dissi, continuando a tenerla fra le braccia. Non riuscivo a staccarmene.

Fece cenno di sì con la testa. Anche lei sembrava non volersi liberare di me ma sicuramente a causa dello spavento.

«Per fortuna ti ho presa in tempo o mi sarei dovuto gettare in acqua per salvarti» continuai, accennando un lieve sorriso e cercando di smorzare la tensione che si era creata.

«Già!» rispose solamente, ma continuò a guardarmi.

I nostri occhi erano come calamite, non riuscivamo a smettere di fissarci. Quanto tempo passò? Un minuto? Forse solo pochi secondi che mi parvero, però, infiniti. Il tempo si era fermato. Fummo richiamati alla realtà dal suono dei nostri telefoni, sembrarono sincronizzati.

«Scusa!» esclamai, staccandomi da lei ma restando ancora fermo, immobile, a guardarla.

«Scusami tu!» disse, per poi prendere frettolosamente il telefono dalla tasca dei pantaloncini e rispondere alla chiamata. Si allontanò, seppur di poco, e quella distanza mi provocò un vuoto inspiegabile. Approfittai per rispondere anch'io al cellulare.

«Dimmi, Emre!»

«Can, perdonami se ti disturbo ma mi ha appena chiamato nostro padre e sarà presente anche lui questa sera. Perché non vieni? Dai! Gli faresti una bella sorpresa. Non gli ho detto che sei tornato.»

«Emre, lo sai che questo genere di serate...»

«Sì, sì, Can, lo so, ma papà andrà via domani stesso. Purtroppo ha degli affari urgenti e non può rimanere. Dai, vieni!» mi pregò mio fratello.

«E va bene, dammi il tempo di tornare a casa e cambiarmi» risposi controvoglia, voltandomi verso quella ragazza che avrei dovuto a malincuore lasciare lì.

«Mi raccomando, sii elegante.»

«Emre, già è tanto che vengo. A tra poco» dissi, chiudendo la chiamata e sbuffando, pensando che avrei trascorso una noiosissima serata.

Attesi che la ragazza finisse di parlare al telefono, non potevo andarmene senza salutarla. Non appena riattaccò, si voltò verso me e si avvicinò.

«Perdonami ma devo andare» disse sincera. «Grazie ancora per avermi salvata.»

«Dovere. Lo avrei fatto con chiunque» risposi. Ma cosa stavo dicendo? Sì, non avrei lasciato che qualcuno cadesse in acqua, ci mancherebbe, ma così le stavo facendo intendere che era una qualsiasi.

«Certo!» rispose, voltando lo sguardo verso il mare. Non riuscii a capire se fu un gesto istintivo o se ci fosse rimasta male. Ma cosa andavo a pensare? Non ci conoscevamo, non ero nessuno per lei e lei, in fondo, non era nessuno per me.

«Arrivederci!» mi salutò, fissandomi fugacemente per l'ultima volta prima di oltrepassarmi e andare via a passo svelto come se stesse scappando.

La seguii con lo sguardo finché svoltò l'angolo e scomparve.

«Andiamo, Can Divit, torna coi piedi per terra e vai a questa noiosissima festa» dissi sottovoce tra me e me.

L'odore del paneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora