CAPITOLO 20

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Sanem

Corsi alla scogliera dove di solito riuscivo a mandar via per un po’ tutto ciò che mi faceva star male e anche se ovviamente non risolvevo i miei problemi, il mare riusciva a calmarmi, a stordire i miei pensieri. Ed avevo bisogno proprio di questo. Ma non servì. Il pensiero che i miei genitori avessero deciso per me una cosa così importante mi dilaniava; non pensavano ai miei sentimenti, alla mia vita? Mi sentivo tradita da chi avrebbe dovuto pensare soltanto alla mia felicità. Continuavo a piangere e singhiozzare. Questa volta, quella distesa azzurra, che già di sera aveva il colore della notte, mi sembrò nera come la pece. Nascosi il viso tra le mani e per la prima volta odiai quel posto perché non riusciva a darmi pace. Sentii uno scalpiccio alle mie spalle e mi voltai, ma era solo un bambino che giocava saltellando. I pochi passanti non facevano caso a me o forse pensavano che non avessi bisogno di loro per placare il mio dolore e in effetti non era di loro che avevo bisogno. E poi il mio sguardo incontrò il suo, s’incatenò a quegli occhi profondi come la notte ma che, invece di intimorirmi, mi facevano sentire al sicuro.

Vidi il mio sconosciuto alzarsi e venire verso di me, sedersi accanto a me senza dire una parola, mentre i nostri occhi parlavano, forse, per noi. Mi rivolsi di nuovo al mare pensando: “Qualcuno è riuscito a fare ciò che stasera tu non hai fatto”. E senza esitare, col cuore che batteva di una strana felicità, poggiai la testa sulla sua spalla. La sua sola presenza era riuscita a distrarre la mia mente. Lo sentii muoversi ma solo per avvolgere le mie spalle col suo braccio e di nuovo, senza tentennare, mi lasciai andare poggiandomi a lui. Riuscii a non pensare più a niente.

Trascorsero minuti che sembrarono interminabili ma al tempo stesso fugaci quando ruppe lui il silenzio.

«Hai freddo?» disse premuroso, notando probabilmente i brividi sulla mia pelle e che stringevo di più le mie braccia conserte.

«Un po’, ma non importa.»

«Permetti?» mi chiese mentre si allungava anche con l’altro braccio stringendomi a sé.

Quel contatto mi provocò altri brividi, ma non di freddo, e il mio cuore accelerò quasi volesse scoppiarmi dal petto. Sentivo il suo respiro a pochi centimetri dai miei capelli e avrei giurato che non fosse regolare. Sarei rimasta così per tutta la notte ma mi liberai da quell’abbraccio quasi subito e lo fissai.

«Grazie!»

«Per cosa?»

«Per avermi salvata ancora una volta» dissi sincera, anche se sapevo che la realtà mi stava aspettando.

«Se ti va di parlare…»

Continuai a fissarlo. Non avevo voglia di rovinare quel momento inatteso e magico. Dovette capirlo perché mi sorrise ma non chiese di più. Una folata di vento mi scompigliò i capelli e la sua mano, istintivamente, me li ravviò liberandomi il viso fino a terminare in una lieve ed insicura carezza. Calai il viso intimidita da quel gesto per poi cercare qualcosa da dire per rompere quel momento che stava diventando imbarazzante.

«Non conosco il tuo nome» esclamai risollevando la testa.

«Can!»

«Io mi chiamo Sanem!»

«Lo so!» disse cercando di nascondere un lieve sorriso.

«Lo sai?» chiesi incuriosita.

«Sono stato in panetteria e ho chiesto di te.»

«Hai chiesto di me?» domandai arrossendo, pensando a quanto mi avrebbero presa in giro dall’indomani.

«Ho detto che avevi dimenticato di darmi il resto e che assolutamente dovevo parlare con te. Così un ragazzo un po’ strano ha iniziato a dire: «Ah, Sanem, è la solita!» Gli ho detto di non preoccuparsi e che sicuramente eri stata distratta dal mio fascino.»

«Ma cosa… Davvero hai detto questo? Allah, ora Muzo saprà come prendermi in giro. Ma come ti è saltato in mente? A proposito, scusa davvero per il resto, l’ho messo da parte nel caso fossi tornato ma poi sono dovuta partire qualche giorno. Ma se domattina passi è lì.»

Sul suo viso si aprì un sorriso che esplose in una risata sommessa. Lo guardai accigliata.

«Mi stavi prendendo in giro?»

«No, cioè sì, ma se ti dicessi cosa ho fatto davvero per scoprire il tuo nome non so se vorrai continuare a parlare con me.»

«Avanti!» dissi categorica mettendomi a braccia conserte e diventando seria.

Mi raccontò la storia del libro.

«Non ci credo! Mihriban si è fidata di te, così, dicendole semplicemente di essere mio amico?»

«Cosa c’è di strano?» domandò.

«Non lo so, ma parlerò con Mihriban.» Qualcosa non mi convinceva, non era facile che quella donna si fidasse di uno sconosciuto. Avrei indagato e non gli chiesi più nulla.

«Comunque per il resto… puoi tenerlo.»

Ecco, lo sapevo! Non l’avrei più rivisto.

«Non se ne parla! Non siamo mica dei ladri. Ci tengo!» dissi risoluta.

«Va bene! Se ci tieni...»

«Sì, ovvio!»

Perfetto, avevo creato un'occasione per rivederlo senza farglielo capire.

«E poi...»

«E poi?» fece eco lui.

«E poi... dovresti restituirmi il libro» aggiunsi, così da eludere ogni possibilità di fargli intendere altro. Era l'unico modo per proteggermi da quella illusione che mi aveva accompagnata nei giorni precedenti.

«Certo... il libro» ripeté, voltando poi lo sguardo verso il mare.

Restammo ancora un po' così, seduti l'una di fronte all'altro, assorti di nuovo nei nostri silenzi.

L'odore del paneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora