CAPITOLO 41

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Can

Trascorse quasi un mese, durante il quale capii di amare Sanem profondamente, più di quanto avessi potuto immaginare. Lei era rimasta a Bursa, da sua nonna, per sfuggire ad una realtà che non riusciva ad affrontare ma che prima o poi avrebbe dovuto prendere di petto, affrontare i suoi genitori e far capire loro che la sua vita era più importante di qualsiasi ricatto da parte di quell’uomo abominevole.

Andavo da lei una volta a settimana rimanendo lì tre giorni, poi ritornavo ad Istanbul per lavorare al fianco di Akif; ormai anche il mio lavoro aveva preso una svolta, avevo deciso di piantare la tenda per restare accanto alla mia Sanem. Avevo girato abbastanza per il mondo e ripartire da solo non mi avrebbe più fatto sentire libero, non riuscivo a pensare di lasciare la mia città per settimane o mesi perché in realtà avrebbe significato lasciare lì Sanem. Semmai, avremmo viaggiato insieme, un giorno.

Lì a Bursa, vidi rinascere il sorriso di quella ragazza dalla pelle di luna, i suoi occhi, quando incontravano i miei, s’illuminavano come un faro nella notte ed io mi sentivo al sicuro, mi sentivo amato come mai era successo prima di lei. Il nostro era un amore tenero, dolce ma passionale, un sentimento che andava ben oltre la fisicità e che sapeva di immenso. Non eravamo ancora stati insieme in quel senso, nonostante la desiderassi da morire, eppure riuscivo a resistere davanti alla sua dolcezza e alla vitalità che sprigionava. Con lei avevo imparato cosa significasse davvero amare, la sentivo dentro di me come l’aria che respiravo.

Le nostre lunghe passeggiate nel bosco erano scandite dai racconti della nostra infanzia e adolescenza, imparammo a conoscere quel tempo di noi che avevamo vissuto fino al giorno in cui ci eravamo incontrati. Sulle rive del lago, ai piedi del salice piangente che Sanem tanto amava, ce ne stavamo in silenzio abbracciati; lei seduta davanti a me fra le mie gambe ed io che la stringevo respirando il suo profumo che sapeva di fiori selvatici. Avevamo preso, poi, l’abitudine di dormire insieme. Nonna Ateş non ne aveva voluto sentire di farmi alloggiare in albergo, come invece accadeva con Yiğit quelle rare volte che anche lui tornava lì. Io e Sanem condividevamo quelle poche ore notturne nello stesso letto, la stringevo a me finché non si addormentava e poi m’incantavo a guardarla, accarezzandole lievemente il viso. Era bellissima, al punto che avrei potuto anche non osservare più il cielo incastonato di stelle, perché lei era tutto ciò che i miei occhi volevano ammirare.

Una domenica ci ritrovammo lì a Bursa tutti i suoi amici, che ormai erano anche un po’ i miei; da quando Sanem era via, Ayhan m’invitava spesso a passare le serate con loro.

Fummo colti di sorpresa quando sentimmo in lontananza una risata che avremmo riconosciuto tra un milione: quella di Muzo, seguito da Ayhan, il suo ragazzo CeyCey, Denise e Guliz. Fu una gioia immensa per Sanem trovarseli tutti lì, mentre sua nonna si adoperò velocemente e senza alcuna difficoltà a preparare un pranzo per quegli ospiti speciali che invasero quel luogo di risate e tanta allegria.

Un fine settimana, poche ore prima di partire nuovamente per Bursa, ricevetti una chiamata di mia cugina Cassandra: mi informò che avrei dovuto raggiungerla in Italia per poter permettere al notaio di aprire il testamento di nostra nonna e che mi sarebbe arrivata presto la convocazione.

«Vieni con me!» proposi a Sanem, quella sera.

«Can, cosa dico ai miei genitori?»

«Non dire niente. Staremo via pochi giorni e al ritorno ti accompagnerò a casa, così che tu possa parlare con loro. Prima o poi dovrai affrontarli e… magari parlargli di me…»

La vidi irrigidirsi. Eravamo al lago. Potevo sentire il suo corpo tremare leggermente. Capivo che non sarebbe stato facile ma non poteva più andare avanti così.

«Devo dirti una cosa…» Prese un profondo respiro. Capii subito che era qualcosa di serio. «Yiğit vuole che io torni ad Istanbul. Fra un paio di mesi…»

Non le lasciai finire la frase. «No, Sanem, tu non lo sposerai perché non lo vuoi e io non lo permetterò. Se vuoi, ti porterò a casa tua domani e parlerai con la tua famiglia. O questa storia non avrà una fine» dissi categorico.

A cena ne parlammo con nonna Ateş che fu dalla mia parte. Più di una volta aveva parlato con sua figlia cercando di sindacare e farla ragionare, ma a quanto pareva la signora Mevkibe continuava ad essere ostinata e per di più avevano anticipato il matrimonio di un mese.

Quella sera, abbracciati nel piccolo letto, chiesi a Sanem: «Perché Yiğit li ricatta?» Durante quelle settimane, in cui l'avevo vista rifiorire, avevo evitato di riportarle alla mente quella deprecabile situazione.

La sentii agitarsi. «Chi ti ha detto che li ricatta?»

«Sanem... non sono uno stupido!»

Il silenzio sembrò farsi ancora più rumoroso.

«Can… io… E’ colpa mia!» Non riuscì più a parlare. Le lacrime iniziarono a scorrerle sul viso e prese a singhiozzare. La strinsi forte e le accarezzai la testa, le asciugavo quelle lacrime salate, delle quali, dentro me, conoscevo il motivo. Oh, sì, che l’avevo capito, ma doveva essere lei a dirmelo.

«Shhh! Basta, amore mio, vieni qui!» La tirai ancora di più fra le mie braccia e vi si accoccolò come una bambina indifesa.

La mattina seguente ripartimmo per Istanbul. L’ora delle verità era arrivata.

L'odore del paneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora