CAPITOLO 22

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Sanem

C’incontravamo ogni sera alla scogliera, dopo cena, e tutte le mattine prima dell’orario di apertura Can passava in panetteria per far colazione insieme. Erano i due momenti della giornata che aspettavo con ansia. Era successo tutto in maniera così naturale, o almeno così volevo credere.

La sera in cui ci ritrovammo per la restituzione del libro, che Can nuovamente “dimenticò”, mi diede appuntamento per l’indomani, sempre lì alla scogliera, per restituirmelo. E così fu per tutte le sere a venire, ma non appena mi vedeva arrivare si batteva la mano in fronte ed io capivo che l’aveva ancora una volta “dimenticato”, oppure mi accoglieva con le labbra serrate nascondendo un sorriso e facendo spallucce. Ormai avevo capito che quella era solo una tattica per rivedermi ed io ne ero felice, uscivo di casa portando con me milioni di farfalle nello stomaco, finché non lo vedevo ed anche il mio cuore ci dava dentro battendo all’impazzata. Il suo sorriso e i suoi occhi che si perdevano a guardarmi intensamente mi scioglievano come un gelato in piena estate. Non sapevo ancora bene cosa provassi, o forse avevo solo paura di ammetterlo, paura che qualcosa di così bello ed emozionante potesse improvvisamente scoppiare come una fragile bolla. E per Can sembrava lo stesso, c’era qualcosa che gli impediva di farsi avanti, di far sì che tra di noi ci fosse più di quella che definimmo comunque una dolce amicizia, nonostante entrambi, ne ero sicura, sapevamo perfettamente che era qualcosa di più.

La “dolce amicizia” nacque una mattina a colazione: apparecchiavo l’unico tavolino presente in un angolo della panetteria dove c’erano una finestra, dalla quale si poteva scorgere unicamente il cielo, essendo leggermente alta, e sulla parete adiacente una tela raffigurante le Isole Galapagos, il mio grande sogno, che mi permetteva di sognare oltre i confini della mia vita quotidiana.

Senza alcun accordo, come se anche quel rituale fosse nato in maniera naturale, Can si presentava con tè, caffè, cappuccini, spremute d’arancia, ogni mattina una bevanda diversa, mentre io servivo simit (ciambelline al sesamo), baklava (dolce a base di frutta secca), elamali kurabiye (fagottini di mele), kadaif (dolce a base di mandorle). Benché la colazione turca solitamente prevedesse anche verdure, salumi e formaggi, noi optavamo per la colazione “dolce” alla quale si aggiungeva l’avvolgente odore del pane che rendeva il tutto ancora più speciale.

La prima volta non mi aspettavo di vederlo assolutamente, ci eravamo dati appuntamento per la sera per la restituzione del libro. Sentii bussare sul vetro della porta, come la mattina precedente. Rimasi a guardarlo finché mi fece segno di aprirgli.

«Cos’è, non volevi farmi entrare? Tranquilla non mi ha visto nessuno» disse facendomi un occhiolino.

«No, è che…»

«Ho capito, devo rispettare l’orario di apertura. Scusami!» si affrettò a dire cambiando il tono di voce che da allegro sembrò passare a dispiaciuto.

«Ma cosa dici? Certo che puoi entrare, solo non mi aspettavo di vederti!» risposi prima che andasse via.

«Quindi posso entrare? Anche perché…» portò le braccia in avanti e mostrò due sacchetti che aveva tenuto nascosti dietro la schiena, «ho portato la colazione. Cioè, ho preso solo un tè ed un caffè non sapendo quale dei due preferissi e poi ho pensato, “chissà con cosa farà colazione, se con dolce o salato.” Per cui basta dirmelo e subito provvedo.»

Avrei voluto vedere io stessa l’espressione stupita sul mio viso ma dal sorriso che nacque sulle labbra di Can capii che non solo la sorpresa gli era riuscita ma che, con molta probabilità, ero avvampata fino alla radice dei capelli.

Sistemai le bevande sul tavolino e corsi nel laboratorio a prendere dei simit e dei pezzi di baklava appena sfornati. Inoltre, minacciai Muzo di non mettere piede in negozio e di non ficcare il naso per la curiosità o mi sarei assentata per un’altra settimana. Mi guardò stranito e senza fiatare. Sapevo che ci avrebbe spiati lo stesso ma l’importante era che non interrompesse quel momento.

Quella fu la prima di tutte le colazioni dei mattini seguenti. Persino quando era il mio turno di riposo proponevo a Denise di arrivare tranquillamente un’ora più tardi. Già normalmente svegliarmi all’alba non era pesante per me e col pensiero di vedere Can la sveglia me la davano le farfalle dentro me.

«Oh, ma buongiorno, amico di Sanem!» irruppe Muzo, una mattina, trattenendo una risata.

Gli lanciai uno sguardo minaccioso nel quale, tacitamente, gli dissi “dopo facciamo i conti”. Can si voltò per salutarlo, non sembrava essere in imbarazzo, al contrario si alzò e gli tese la mano. Muzo l’afferrò senza pensare che fosse tutta sporca di farina. Vidi entrambi guardarsi le mani e poi scoppiare a ridere. Mi coprii il volto con le mani poggiando i gomiti sul tavolino. L’imprevedibilità del mio amico mi faceva paura, dopo quell’irruzione non sapevo davvero cosa aspettarmi. Per fortuna lasciò che Can si accomodasse di nuovo. Gli feci segno di andare via e tirai un sospiro quando ci voltò le spalle.

«Aaah, che dolce amicizia avvolge l’arrivo di un nuovo giorno!» lo sentii sussurrare prima di sparire ma in modo che sia io che Can potessimo sentirlo.

Mentre io prendevo letteralmente il colore dell’aragosta, vidi che anche sul viso di Can comparve un lieve imbarazzo ma accompagnato da un sorriso.

“Ah, Zeberget, dopo ti ammazzo!” pensai.

L'odore del paneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora