Capitolo 32

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12 Dicembre 2008 ore 23:30

Clinica Cornell, 654 Madison Ave, New York.

«Perché siamo qui?» il ragazzo sperduto era decisamente confuso nel vedere il grande edificio bianco proprio difronte a noi.
Era la clinica Cornell, l'ospedale pediatrico specializzato in bambino con disturbi specifici del linguaggio.

«C'è una persona che vorrei che tu conoscessi» dissi infine, con un'enorme magone dentro lo stomaco.
Non avevo mai portato nessuno qui, sopratutto non ero mai stata in grado di far conoscere questa parte di me a nessuno.
Ed avevo paura, perché portare qui il ragazzo sperduto avrebbe significato solo una cosa, che però non ero ancora pronta a dire ad alta voce: che lo amavo davvero.
Ci addentrammo verso l'androne principale, le pareti erano totalmente bianche, ma a differenza di qualsiasi altro ospedale in circolazione, questo era il più moderno e lussuoso fra tutti.
D'altronde era una clinica privata, ed ogni anno venivano fatte delle donazioni proprio per mantenere in auge il buon nome dell'ospedale.
L'androne era pavimentato in legno, con dei quadri lungo le pareti, delle poltrone in velluto verdi ai lati ed un grande desk da cui dietro c'era la segretaria della struttura, Tate.
Non appena mi vide, subito spalancò gli occhi, alternò lo sguardo fra me, ed il ragazzo al mio fianco, che a differenza mia, portava una maschera in volto.

«Credevo ci fossi solo tu» disse lei, con ancora quell'espressione in volto.
Scossi la testa sorridendo «Quest'anno festeggiamo in grande» dissi felice, avvicinandomi alla sua postazione.
Si abbassò verso un mobiletto ed estrasse quella che era una piccola torta di compleanno «Ti sta aspettando» disse porgendomela, per poi correggersi «Anzi, vi sta aspettando».
Presi la torta e camminai verso il lungo corridoio difronte, sentivo i passi del ragazzo sperduto dietro di me, e più avanzavo, più cresceva una strana sensazione nel petto.
Mi seguiva e basta, senza dire nemmeno una parola, forse troppo timido per poter parlare, o forse stava solo cercando di aspettare i miei tempi.
Così decisi di farmi coraggio e dirgli tutto.
Non appena arrivai difronte ad una porta ben precisa, mi fermai.
Presi un profondo respiro e mi girai verso di lui «Nessuno sa di lui. Mamma ha deciso di tenerlo nascosto per proteggerlo dalle grinfie dell'Upper East Side, ma la verità è un'altra: si vergogna di lui» quella era la cosa più difficile da dover dire.

«Kat, non capisco.. Chi-» cercò di parlare, ma io lo fermai scuotendo la testa.

«Ho un fratello, Elliott» rivelai, come se un grosso peso si fosse tolto dallo stomaco «A mezzanotte fa tre anni, e nessuno sa della sua esistenza».

Indugiai prima di alzare lo sguardo e guardarlo dritto in faccia.
Ho sempre odiato lo sguardo di pietà nei volti delle persone, sopratutto perché la maggior parte di loro avrebbe detto sempre e solo la stessa cosa: "povera Katherine Walton, che ha un fratello muto", ma i poveri erano loro a pensare che per me fosse un problema.
Elliott era un bambino normalissimo, intelligente, dolce, gentile e premuroso.
Nella vita c'era chi parlava troppo, come loro, e chi invece non parlava proprio, come lui.
E tra i due, preferivo nettamente Elliott.

«Elliott non ha alcun tipo di patologia al sistema nervoso, non è né sordo, né muto. È totalmente sano, ride, scherza, gioca, è perfino il più bravo della sua classe in questa struttura, ma non ha mai parlato. O meglio, lo aveva fatto, quando ha compiuto un anno, la sua prima parola è stata Kat, poi mamma, ed infine papà» cominciai a raccontare, cercando di tenere il più possibile ferma la voce «Poi un giorno, i miei andarono in montagna, e portarono anche Elliott. Non seppi cosa successe esattamente, ma qualcosa lo aveva spaventato a tal punto da non dire più una parola. E così è stato, e lo è tuttora».

«Perché mi hai raccontato tutto questo?» chiese lui in tono stupito.

Giocherellai con il nastro sopra il pacchetto della torta «Si, insomma, non volevo fosse strano..» ma lui mi bloccò, prendendo la torta dalle mie mani e rimproverandomi da sotto la maschera «Solo perché non parla non significa che sia diverso, anzi. Io preferisco le persone silenziose» disse infine, regalandomi uno dei sorrisi più belli che io abbia mai visto.
«Stai dicendo che parlo troppo?» lo presi in giro.
Oscillò il capo «Ogni tanto mi fai venire l'emicrania».

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