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Quella sera cenai insieme a mio padre. O meglio, la voce di mio padre mi tenne compagnia nelle orecchie mentre gustavo un piattone di carbonara e uno strudel di mele con zucchero a velo e panna montata in un ristorantino vicino alla libreria dove si sarebbe tenuta la mia presentazione. Ero attesa per le nove, quindi avevo ancora una buona mezz'ora da perdere.

Gli avevo raccontato tutto, delle mie indagini, di Staff, del borgo, della famiglia di Alice, omettendo solo la violenza con cui il dottore mi aveva stritolato il braccio. Sapevo che papà sarebbe stato capace di partire immediatamente per sfidare a duello chiunque si fosse permesso di trattare in quel modo la sua principessina. L'impronta rossa delle dita del dottor Paccagnella spiccava come un faro sulla mia pelle e rabbrividivo ogni volta che vi posavo lo sguardo.

<<Tu che ne pensi?>> gli domandai a bocca piena.

<<Sei sicura che ti abbia detto proprio così? O hai lavorato un po' di fantasia come al tuo solito?>>

<<Te lo giuro, papà. È stato davvero minaccioso.>>

Mio padre rimase qualche istante silenzioso. Era un uomo profondamente riflessivo, a volte poteva prendersi minuti interi prima di rispondere a una domanda. E non faceva mai nulla senza aver prima valutato i pro e i contro. <<Allora penso ci sia sotto qualcosa...>>

<<Sì!>> esultai, eccitata.

<<...e penso anche che tu debba lasciar perdere.>>

Le braccia che avevo alzato in un gesto vittorioso ricaddero sul tavolo. <<Lasciar perdere? Sto indagando su un vero caso! Potrei rintracciare due persone scomparse...>>

<<Due persone che forse sono svanite nel nulla volontariamente e hanno pregato i loro cari di dimenticarli, per chissà quale ragione. Persone così non si fanno trovare volentieri. Ho paura che potresti cacciarti in qualche guaio, tesoro.>>

<<Starò attenta, papà, te lo prometto. E se, proseguendo nella ricerca, mi renderò conto che le cose iniziano a farsi pericolose, mi fermerò.>>

<<Non ti credo neanche un po', ma confido che tu abbia ereditato un po' del mio buonsenso.>> Sentii l'eco di un sorriso nella sua voce.

Adoravo mio padre. Con lui avevo stretto un rapporto indissolubile fin da neonata, quando mamma era troppo impegnata in ospedale e papà aveva deciso di prendersi un anno sabbatico dallo studio legale per badare a me. Non che i miei genitori avessero chissà quale bisogno di lavorare. Mamma Vittoria discendeva da un ramo cadetto della famiglia reale dei Savoia. I suoi genitori e miei nonni, ancora entrambi vivi e frizzanti, non avevano mai fatto nulla nella loro vita. Il nonno possedeva una banca ma non ci metteva mai piede, mentre la nonna si dilettava a organizzare eventi di beneficenza nella villa di famiglia e si abbronzava sotto il sole dei Caraibi nove mesi all'anno. I fratelli di mamma avevano proseguito in questo stile di vita pantofolaio e assolutamente improduttivo. Da veri snob avevano sposato nobili e ricconi e avevano messo al mondo mocciosi viziati ed egocentrici. Mamma invece aveva deciso di studiare medicina e di diventare qualcuno, perché essere una Savoia non le bastava.

Papà Gabriele invece veniva da una famiglia povera, che però si era fatta in quattro per assicurare al loro unico figlio un futuro, risparmiando fino all'ultimo centesimo per consentirgli di studiare giurisprudenza e diventare un avvocato di grido. Anche se in realtà prima di incontrare la mamma non era altro che uno stagista - eufemismo per "portatore di caffè" - presso uno studio legale pressoché sconosciuto. Era stata mamma a inserirlo nella "società bene", a fargli conoscere le persone giuste e a procurargli clienti facoltosi che gli avevano consentito in breve tempo di aprirsi un proprio studio legale.

Mistero in riva al lagoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora