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AMÉLIE

Era trascorso un mese da quando io e Joshua, ormai, condividevamo lo stesso tetto, eppure, sembrava non esser cambiato nulla nella nostra vita.

Anzi, con enorme dispiacere ammisi che mi sentivo più libera nella mia vecchia abitazione, seppur segregata tra gli invalicabili cancelli della maestosa Villa Thompson, che nella camera in cui mi ero auto-confinata nella casa di proprietà del mio fratellastro.

Io non uscivo mai con il naso fuori dalla camera che Joshua mi aveva offerto, se non per mangiare ciò che preparava la cuoca che quest'ultimo aveva assunto affinché provvedesse alla mia alimentazione.
Cuoca che evitava ogni tipo di interazione con me, evitandomi come se avessi la peste bubbonica.

La casa era troppo grande e, più volte avevo urtato involontariamente contro qualche oggetto di valore, alle volte rompendolo facendo, di conseguenza, infuriare enormemente Joshua, il quale era tremendamente geloso d'ogni cosa ci fosse a casa sua.

I tavoli possedevano angoli pericolosamente appuntiti e temevo che, inciampando, avrei potuto picchiarci contro con la testa e farmi parecchio male. Tuttavia, invece di esprimere il mio timore a Joshua, preferivo tacere e trascorrere le mie giornate rintanata nella camera affidatami da quest'ultimo, leggendo libri Braille che avevo letto e straletto fino a ricordare ogni singolo particolare di ogni singola trama.

Joshua mi ignorava per giorni interi, interessandosi di me solo per chiedere se avessi mangiato.

Io odiavo la solitudine.
L'avevo sempre odiata.

La sensazione che mi provocava inevitabilmente quest'ultima, aveva il potere di rattristarmi enormemente.
Soprattutto, quando il silenzio regnava in quella grossa casa vuota.

Sì, vuota.
Vuota perché anche se c'ero io al suo interno, io stessa ero fatta di puro e semplice nulla.

I miei pensieri vagavano e vagavano velocemente.
E, mi chiedevo:"Dov'è andato storto?"

Sapevo che non dovevo pensare.
Sapevo che dovevo evadere dalla mia stessa mente, seppur fosse l'unica che mi permetteva di immaginare qualcosa.

《Ma se nessuno ti parla, allora non ti resta che pensare.》mi dicevo come per fornire una valida giustificazione ai pensieri ingombranti che si accalcavano nella mia testa.

E, allora continuavo a pensare e pensare.

Pensavo a mia madre che mi aveva fatto dono di una vita che io sentivo di non poter vivere.
Pensavo a mio padre che non aveva mai minimamente dimostrato il bene che mi voleva, perché gli ricordavo sua moglie.
Pensavo a Joshua e, mi dispiacevo perché la mia nascita gli aveva arrecato un dolore incomparabile che l'aveva reso un uomo di ghiaccio.

E, intanto la gola mi si chiudeva, come se l'aria mi fosse impedita di circolare a causa di qualcosa che ostruiva la via respiratoria.

Improvvisamente si udì il violento schianto di un tuono, rotto, aspro e cupo.
E, la mia mente fantasticò che quest'ultimo fosse stato preceduto da un grosso lampo che aveva squarciato il cielo con il bagliore della sua luce.
Ovviamente, non sapevo come fosse un lampo o un cielo, ma, i libri aiutavano la mia immaginazione a partorire immagini inerenti a questi elementi.

La pioggia si abbatté con forza contro le finestre dell'immensa casa e, subitamente, sul mio viso fece capolino un dolce sorriso.

Contai giusto dieci lunghi passi e afferrai saldamente la maniglia della porta, poi, girai a destra varcando la soglia dell'immenso salone.
Subitamente, percepii il forte profumo di Joshua permeare l'aria, ma non mi interessai della sua presenza continuando a procedere verso il grande finestrone situato dinanzi al divano circolare di pelle.

𝑂𝑙𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑏𝑢𝑖𝑜Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora