XXXI

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NARRATORE ESTERNO

"L'unico modo che ha un'amore per rinascere è morire", disse qualcuno una volta...

Ma, al mondo esistono legami che sono impossibili da recidere, fili invisibili intrecciati strettamente tra loro, saldi seppur non visibili ad occhio nudo.

Talvolta, questi fili potrebbero consumarsi o logorarsi, ma rimarrano legati, uniti e indistruttibili.

Joshua e Amélie, seppur lontani fisicamente, nella loro mente e nel loro cuore erano perennemente uniti, legati tra loro da quegli stessi fili, invisibili fino a quel momento però solamente agli occhi di Joshua.

Quanto tempo aveva sprecato a fingere di non volerle bene?
Tanto, tanto tempo.

Una vita intera trascorsa a fingere di odiare l'unica persona in grado di donargli l'affetto che tanto gli era mancato.

L'aveva emarginata, l'aveva abbandonata, solo perché la sua presenza gli rammentava dolorosamente che sua madre era morta, solamente per dare la vita a lei.
E, nel mentre, disteso sul letto, situato nel mezzo di una stanza d'ospedale, Joshua fissava con sguardo smarrito il limpido cielo azzurro dalla piccola finestra che lasciava entrare i caldi raggi del sole, si rimproverò per quel terribile errore commesso.
Perché, finalmente, aveva compreso che Amélie non aveva mai avuto scelta.

Si sentì un emerito stronzo, una nullità, al pensiero che per l'intera sua esistenza avesse affibbiato la colpa del disastro che era la sua stessa vita ad Amélie.
Amélie, che non aveva colpa di alcunché.
Amélie, che semplicemente era stata sfortunata fin dalla nascita.

La ferita gli pulsava con vivo dolore, ma quell'insopportabile supplizio era nulla in confronto al tremendo tormento che angustiava quel muscolo palpitante che si trovava alla sinistra del suo torace.

Joshua non riusciva a trovare una definizione esatta per descrivere quell'affliggente e lancinante dolore.
Tuttavia, conosceva la cura ad esso.
Amélie.

Solamente Amélie avrebbe potuto guarire la profonda piaga che aveva diviso in due il suo minuscolo cuore.

Per la prima volta da quando sua madre - Nicole Thompson - era morta, Joshua avvertiva l'angosciante sensazione di perdita serrargli nuovamente la gola e inondargli gli occhi di un immenso fiume di dolore.
Necessitava di espellere un po' di quella terribile e angosciante sofferenza, perciò, nonostante per lui piangere fosse un'azione inutile, permise a quel dolore liquido di cascare dai suoi occhi neri come una notte priva di stelle.

《Un altro minuto...》mormorò a sé stesso con le lenzuola celeste pallido che tenne strettamente tra i pugni delle mani quando paragonò tale colore a quello che velava le iridi della sua bestiolina.

Dopo esser stato colpito, era stato urgentemente portato al pronto soccorso dove avevano provveduto ad estrarre il proiettile, a pulire con cura la zona sanguinante e a fasciare il tutto.
Joshua era stato incosciente durante l'intero processo e per l'intero giorno dopo.

Solamente pochi minuti prima i suoi occhi si erano aperti con esagerata lentezza e, l'uomo aveva preso coscienza di tutto ciò che era accaduto, rammentando soprattutto, l'ineffabile sensazione di gioia che aveva provato nell'essere stretto con cotanto calore tra le braccia di Amélie.

Un altro minuto, in cui poteva piangere come il bambino che non era mai stato.
Un altro minuto, per ricordare l'errore commesso e pregare silenziosamente sua madre affinché potesse porvi rimedio, poi, avrebbe agito di conseguenza.

Quando ebbe terminato, sospirò profondamente per poi volgere lo sguardo risoluto per la stanza di degenza ospedaliera alla ricerca dei suoi effetti personali.
Su una poltrona di cuoio, che aveva tutta l'aria di essere scomoda e vecchia, posta all'angolo destro della camera vi erano la sua giacca e i pantaloni rigorosamente neri.
Sul pavimento accanto alla poltrona trovò i suoi eleganti mocassini dalle punte macchiate da piccoli schizzi di sangue ormai secco.

Aggrottò la fronte quando non trovò la camicia, ma la frenesia di andarsene lo spinse a non soffermarcisi troppo, pertanto prese a vestirsi con movimenti lenti e silenziosi, sia a causa del dolore provocato dalla ferita sia per non farsi scoprire.

Tastandosi le tasche, dove normalmente riponeva il suo portafoglio e il cellulare, le trovò vuote.

Imprecò a denti stretti, reprimendo la crescente voglia di prendere a calci la poltrona e l'intero mobilio presente in quella stanza che puzzava fastidiosamente di disinfettante.

《Okay, Joshua, è tutto okay. Pensa, pensa...pensa.》ripeté tra sé e sé a tono basso facendo correre nervosamente gli occhi da una parte all'altra della stanza finché il suo sguardo allucinato non si fissò sui luminosi fasci di luce che penetravano dalla larga finestra.
Si precipitò dinnanzi a quest'ultima, sollevandone il vetro per poi affacciarvisi.

I suoi profondi occhi neri coazzarono impazziti prima a destra, poi, a sinistra.

Si trovava al terzo piano dell'edificio, pertanto un salto di almeno 12 metri, era senza ogni ombra di dubbio un'opzione da scartare, a meno che non avrebbe desiderato suicidarsi.
Sporse, poi, maggiormente la testa rivolgendo l'attenzione verso il basso.
E, fu in quel momento che notò un grosso cornicione che scendeva dal tetto proseguendo in orizzontale sopra i muri.

Joshua calcolò approssimativamente la distanza tra il davanzale in marmo della finestra e il cornicione, pregando affinché non cascasse nel vuoto.

Desiderava sinceramente rivedere la sua bestiolina, riportarla a casa e, soprattutto, essere il fratello che lei aveva da sempre desiderato che lui fosse.

Scoccando un veloce sguardo alla soglia della porta, controllò che nessuno fosse nei paraggi.
Appurato ciò, trasse un lungo e profondo respiro, poi, molto lentamente sedette sul largo davanzale calandosi poco a poco da esso.

I muscoli delle sue braccia tremarono convulsamente e la ferita bruciava come le fiamme ardenti dell'inferno, luogo in cui sapeva certamente sarebbe finito, ma, Joshua strinse fortemente i denti tra loro, al punto che temette che si rompessero da un momento all'altro, finché con le punte delle sue eleganti scarpe sfiorò il sacrosanto cornicione.
Restò a penzoloni, con solamente otto polpastrelli a reggere la maggior parte del suo grave peso.
Scoccò un'occhiata terrorizzata verso il basso, poi, pressò fortemente la fronte grondante di sudore freddo contro il muro ruvido e gelido bestemmiando sottovoce con respiro affannoso e incontrollato.

Le sue dita non potevano reggere ancora per molto il peso del suo corpo, pertanto, doveva lasciare la presa e affidarsi al destino, il quale non era stato certamente tanto magnanimo con Joshua fino a quel giorno.

Il suo ultimo pensiero prima che le sue dita scivolassero dal davanzale in marmo andò a sua madre.

Guardò il cielo e scorse, una piccola nuvola bianca che sembrava assomigliare alla sagoma di una farfalla.
Sbatté gli occhi con fare confuso per poi rivolgere nuovamente lo sguardo al cielo, constatando che l'immensità che lo fissava a sua volta dall'alto non presentasse alcuna nuvola a forma di farfalla.
Pensò che probabilmente il panico lo stesse sopraffacendo.

La mente di Joshua era puramente razionale, non credeva nelle leggende, nei segni del destino.
Eppure, in quel momento, qualcosa lo spinse a pensare con la stessa mente e lo stesso cuore di un sognatore.

"Little Butterfly", così il vecchio Scott Thompson amava chiamare sua moglie e, Joshua parve rammentarlo immediatamente.

Sorrise, forse era più propriamente da definirsi un mezzo sorriso, da incredulo, poi, chiuse gli occhi e, lasciò la presa.





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