XXXII

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ZAIN

Rammentai che una volta mio padre mi rimproverò per la freddezza che caratterizzava il mio animo.

Ero un bambino a quel tempo e possedevo entrambi i miei genitori, sani e in vita.
Eppure, non ero mai stato un normale bambino.

Venivo escluso dalla maggior parte dei miei coetanei poiché ero troppo minuto, troppo magro, troppo fragile.
Poi, crebbi e, il mio corpo mutò ma nonostante a quel tempo quegli stessi miei coetanei avessero iniziato a cercare la mia compagnia, io preferivo isolarmi.

Papá soffriva nel vedermi completamente solo e privo di quella gioia immensa che diceva comportasse avere amici.

Amigos?》chiedevo con tono intriso di scherno enfatizzato dall'alzata del mio scuro sopracciglio sinistro.

Non consideravo amici coloro che notando il mio mutamento fisico, economico o di qualunque altro genere, per convenienza sceglievano di avvicinarsi al sottoscritto.

La mia espressione ricolma di amaro scetticismo in risposta alle sollecitazioni sgradite da parte di mio padre volte a stringere amicizia, palesava egregiamente i miei pensieri al riguardo.

Non servivano altre spiegazioni poiché papà era un uomo molto intelligente, ma, anche molto debole.

Era una persona buona.
Amava me, amava la mia mamá.
Proprio per questo motivo lo ritenevo muy débil.

Nel paese in cui vivevamo, "amare" significava "soffrire", vuoi perché la persona amata moriva, vuoi perché tu stesso alla fine, morivi.

Mio padre era morto ingiustamente, vittima del fato bastardo, ma, involontariamente aveva causato la morte anche della mia mamá.
I suoi aguzzini avevano erratamente ipotizzato che Carl Martínez, mio padre, si fosse trovato appositamente lì come spia, per scovare informazioni sui carichi di droga indirizzati in America.

E, poi? Beh, poi, lo avevano torturato per ore e, infine ucciso, non prima di avergli mostrato il corpo morto di mia madre galleggiante nel suo stesso sangue innocente.

Mi papá aveva subìto la ferocia dei crudeli aguzzini mandati da Scott Thompson in silenzio, ma, nel momento in cui i suoi occhi pesti avevano fissato gli occhi, un tempo verdi e ricolmi di vita di mia madre, morti e spenti, seppe cosa significava soffrire per davvero.

Soffrì e morì, fine.

Io, anche, quel giorno morii.
Poi, rinacqui.

Le fiamme della vendetta mi avevano riportato in vita, scuotendo il mio corpo da bambino con ferocia tale che il mio cuore era tornato a battere e il sangue mi era pompato velocemente nelle vene, con l'unica differenza ch'era annerito dalla collera e dalla furia.
Emozioni che, però, nonostante avessi il corpo incosciente di Amélie tra le mie braccia, per un attimo non avvertii più.

Provai un grave peso appesantirmi lo stomaco poi le strinsi delicatamente il polso minuscolo contando mentalmente i suoi battiti.
Alla novantatresima palpitazione, per quanto debole, trassi un profondo sospiro che alleggerì quello stesso peso che stava facendomi quasi capitolare al suolo dal sollievo.

Le osservai il volto pallido con espressione neutra ragionando sul da farsi.

Avvicinai il volto al suo avvertendo il suo debole respiro colpirmi a lievi sbuffi la pelle.

Strinsi di nuovo il polso sottile nella mia mano, percependo chiaramente il palpito dei suoi battiti.

Era viva.
Viva e calda.
Viva e calda, tra le mie braccia, laddove sarebbe sempre rimasta.

𝑂𝑙𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑏𝑢𝑖𝑜Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora