SARAH
La mia impulsività mi sta logorando. Dopo che Joseph è scappato in fretta e furia, col caffè ancora caldo in bocca, ho lavato quei due piatti al volo e mi sono buttata sul letto, in silenzio, a guardare il soffitto. Sono ancora qua, nonostante sia passata più di qualche ora, a rimirare quell'unica sottile crepa che sbuca dall'armadio e arriva fino al lampadario, un vecchio lampadario a forma di astronave che ho scelto quando ero ancora troppo piccola per sapere che piega avrebbe preso il design della mia stanza. Mia madre, dopo quella mia imposizione da bambina imbronciata, non ha più voluto comprarne un altro e ora, alla soglia dei diciotto, nella mia stanza tutta rosa e confetti, quell'astronave sta tremendamente male e quasi sfiora il finto baldacchino con cui ho circondato il letto qualche anno fa.
Sento il telefono vibrare per l'ennesima volta e mi alzo svogliata, dopo averlo ignorato per ore. Sbircio lo schermo, sperando di veder lampeggiare il nome di mia madre, e sbuffo per la smentita del mio telefono. Non è lei, ma Simone. Rispondo e metto il vivavoce, così da poter controllare eventuali messaggi o chiamate a cui non ho risposto. Nessun messaggio da Letizia, un "faccio tardi" da mia madre e due chiamate di papà. Lo richiamerò.
«Ehi, pensavo mi chiamassi dopo pranzo» esordisce lui. Sprofondo sul letto, coprendomi il volto col braccio destro. Che dovrei dirgli? Che ho invitato il suo migliore amico a pranzo? Che è stato strano? «Jo è venuto a prenderti?» aggiunge. Lo sento masticare.
«Sì, grazie» rispondo laconica. Non so davvero perché io lo stia ringraziando. Non si è nemmeno preoccupato di avvisarmi che non sarebbe venuto. Ha solo mandato il suo migliore amico a prendermi come fossi un pacco postale.
«Mi spiace di non avercela fatta» mugugna, con la sua tipica vocina bambinesca, quella che usa quando sa di non avere ragione.
«Non preoccuparti, un guidatore vale l'altro» affermo sicura e, improvvisamente, tutto il senso di colpa passa. Non sono io, quella nel torto. Sono stata gentile con una persona che non conosco bene e che, nonostante per me non sia niente, ed io per lui non sia niente, è venuta a prendermi a scuola per non lasciarmi a piedi. Decido di omettere la questione pranzo e aspetto che lui dica altro. Non sembra avere molto da dire, comunque, e dopo un paio di moine telefoniche chiude la chiamata. Butto il telefono sul puff rosa al centro della mia stanza e mi tuffo con la faccia tra i cuscini del letto, silenziando un urlo che non riesco a trattenere.
«Ovolina, sono a casa». Strillo ancora, sentendo quel ridicolo soprannome che mia madre non vuole mollare, e la raggiungo in cucina.
«Smettila di chiamarmi così» sbraito. Lei mi guarda sorridendo, mentre poggia due buste piene di roba all'ingresso e precipita sul divano, sfinita. Io prendo le buste, portandole in cucina. Odio quando lascia tutto in mezzo alla stanza.
«Perché dovrei? Ti chiamo così da sempre» si giustifica.
«Sì, ma non ho più tre anni e tu non sai controllarti nemmeno davanti ai miei amici» sbotto, sistemando la quantità industriale di frutta che ha comprato. «Sai che in questa casa ci viviamo in due, sì? E tu non ci sei mai» la rimprovero.
«Che succede? Ti girano?» Sospiro, mentre sento gli occhi pizzicarmi per le lacrime che vorrebbero uscire. Sì, mamma, mi girano. Succede anche a me, sai? Vorrei dirglielo, ma sto zitta. Non voglio buttare su di lei la mia frustrazione, non se lo merita. «Problemi con Simone?» aggiunge, con un tono quasi euforico. A mia madre non piace Simone. Non per una questione anagrafica, come a Letizia. A lei non piace perché non le sembra sincero. Non si è mai intromessa, comunque, ma so che la notte prega perché questa relazione finisca.
Sistemo in frigo anche l'ultimo cartone di latte e la raggiungo sul divano, rannicchiandomi tra le sue braccia. Io e mia madre ci scorniamo spesso. Siamo troppo simili, perché non avvenga. Siamo cresciute insieme. Lei è rimasta incinta a quindici anni, ha deciso di portare avanti la gravidanza nonostante il parere contrario dei genitori. Mi ha dato la vita, e non vuole che la sprechi. Mai. Vuole che io sia felice, appagata, serena. Vuole vedermi brillare. Sbagliare è difficile, quando hai una madre così. Deluderla, dopo che lei si è annullata per me, è difficile. Eppure non me li fa mai pesare, gli sbagli.
«Oggi è venuto a prendermi Joseph» bofonchio. Lui le piace. Lo ha visto una volta ed è rimasta folgorata. Perché a Joseph di risultare simpatico per forza non importa. È come appare, non fa niente per piaggeria. Le racconto della reazione di Letizia, della conversazione in macchina, del pranzo, delle sue parole a casa e di come, all'improvviso, sia scappato via.
«Ti senti in colpa?» Dritta al punto, mamma, come al solito.
«Sì e no» ammetto. Lei annuisce, senza intervenire. Mia madre sa come prendermi, sa quando e come lasciarmi i miei spazi. Non è mai stata una invadente. «Al contrario, un pranzo tra lui e Leti, per giunta nascosto, non glielo avrei perdonato. Non subito, almeno. Al tempo stesso, però, lui non si è nemmeno preoccupato di avvisarmi. Ha semplicemente mandato Joseph a prendermi. E io l'ho invitato»
«Quindi lo hai fatto per ripicca?»
«No, assolutamente. Lì per lì l'ho invitato e basta. Mi piace mangiare in compagnia. C'era lui... non ho pensato a nulla, solo a condividere un pasto»
«A posto, allora. Non vedo problemi». Ridacchio. Non vede problemi perché per lei il problema è Simone.
«Non voglio creare casini tra loro»
«Jo non è stupido. Se ha accettato il tuo invito significa che non c'è alcun problema». Annuisco, provando a convincermi che sì, non c'è davvero alcun problema. Tra me e Joseph non c'è niente, Simone non è un geloso e io sono la solita insicura cronica.
«Non glielo dirò» sospiro. Non c'è davvero motivo di creare un dramma sul niente. È stato solo un pranzo. Uno stupido, un po' imbarazzante pranzo tra me e il migliore amico del mio ragazzo. Niente di che.