Capitolo 45

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JOSEPH

«Allora, parlerai un po' di più delle ultime due volte?» Un sorrisetto storto mi si forma sul viso, mentre guardo di sbieco la dottoressa che, bonariamente, mi prende in giro. Stiamo entrando in confidenza, nonostante le mie evidenti difficoltà. L'ho capito perché nella prima seduta continuava a guardarmi impassibile, come se fossi un pezzo di mobilio; nella seconda ha accennato qualche sorriso sparso; adesso mi parla come se mi conoscesse. Eppure ho parlato davvero poco.

«Le ho parlato dei miei» ribatto secco.

«Mi hai raccontato dettagliatamente gli eventi della tua vita, quello non è parlare dei tuoi. O di te, che mi interessa anche di più»

«Credo gli eventi parlino per me»

«Lascialo decidere a me. La volta scorsa mi dicevi che ti fidi poco delle persone. Perché?»

«Perché i miei mi hanno fatto quasi morire di fame» rispondo apatico. E lo sono davvero. Non sto fingendo indifferenza, non sto provando a mascherare il dolore. A me non importa.

«E rivedi i tuoi in ogni persona che incontri?»

«Potenzialmente». Lei annuisce, prendendo qualche appunto apparentemente distratto mentre non smette di scrutarmi. I suoi occhi, di tanto in tanto, mi mettono in soggezione, così distolgo lo sguardo puntandolo verso un quadro alle sue spalle. Una natura morta non particolarmente bella o interessante, in effetti.

«Tu nei tuoi riconosci solo la loro dipendenza»

«È una domanda?»

«No». Deglutisco, provando a formulare una frase di senso compiuto per rispondere a questa non domanda.

«I miei sono la loro dipendenza»

«No» ripete ancora. «Quella è la dipendenza. È a tutti gli effetti una patologia che, volendo, si cura»

«L'amore per un figlio non li ha curati. Quindi immagino non mi amassero abbastanza»

«Mi hai detto che era la tua fidanzata quella sognatrice e tu quello razionale. Eppure, a ventiquattro anni, pensi davvero che l'amore curi una dipendenza. Non sei così ingenuo»

«Quindi?» Respira a fondo, continuando a studiarmi da dietro i suoi enormi occhiali vintage, con una montatura anni settanta arancione. «Dovrei dar retta a Sarah?» aggiungo.

«Io non posso dirti ciò che devi fare, non serve a questo la terapia. Lei potrebbe avere ragione, ma non è detto che tu debba avere un rapporto con due genitori che odi»

«Non li odio» mi affretto a dire e lei sorride compiaciuta.

«Lo so, o non staresti qui»

«Non voglio averci a che fare»

«Comprensibile. Ma sai... a volte chiudere un cerchio aiuta ad andare avanti». Mi gratto un po' il naso, provando a capire dove voglia davvero arrivare.

«Non penso di avere cerchi aperti... a parte l'università, che finirà a breve»

«Sai, è difficile interagire con te. Perché sei fastidiosamente intelligente»

«È un complimento?»

«Sì e no... sai benissimo di che cerchio parlo. Quando sei andato via di casa, a diciotto anni, non ti sei più guardato indietro. Hai preso le tue cose e sei fuggito. Comprensibile, visto l'ambiente. Ma non hai mai chiuso, con i tuoi. Non hai mai detto loro ciò che provavi, come per anni ti avevano fatto sentire»

«Già... non so farlo»

«Prova a dirlo a me. La scusa del non saperlo fare non vale. Tu sai cosa provi e sei dotato di parola... esprimiti. Possiamo star qui anche tutta la notte, non ho altri appuntamenti» mi sprona. Stranamente, non mi sento in trappola. Parlare con lei mi rilassa. E forse è questo che si deve provare davanti alla propria psicologa. O forse è solo terribilmente brava lei.

Sai di nuvola // HoldarahDove le storie prendono vita. Scoprilo ora