JOSEPH
Quando arriviamo nel cortile del palazzo che per anni è stato casa mia, la salivazione è a zero. Provo a deglutire a vuoto, nella speranza di riuscire a formulare almeno un pensiero sensato, mentre Sarah mi tiene la mano e mi stringe il braccio destro, quasi a volermi sorreggere. Non so se ce la farei, senza di lei. Forse sarei già scappato, se lei non fosse qui accanto a me.
Ci avviciniamo all'androne e, facendole strada, la conduco nel sottoscala dell'orrore. Così lo chiamavo, da bambino. La puzza è sempre la stessa: un tanfo di piscio mischiato a quel nauseabondo odore di chiuso, tipico di un luogo senza finestre e mai pulito.
Lei mi guarda, un po' amareggiata, poi abbassa il capo e, forse per la prima volta, capisce davvero ciò che è stato. I suoi occhi tristi sembrano volersi scusare.
«Prima era un po' meglio» mento, continuando a camminare. Arrivo davanti alla porta della mia cantina, busso due volte, ma l'unica risposta che ricevo è il silenzio. La guardo, in un misto tra delusione e sollievo. Non sono qui.
«E voi chi siete?» Ci voltiamo di scatto verso un omone che quasi raggiunge il soffitto basso con la sua testa e che riconosco subito. È il tuttofare del palazzo. L'unica persona, in questo cesso, a occuparsi degli spazi comuni. Per quanto può.
«Sono il figlio dei Carta» dico semplicemente e la sua espressione corrucciata diventa in un lampo più dolce e quasi commossa.
«Sei il piccolo Joseph?» annuisco e lui, inaspettatamente, mi abbraccia.
«Ho chiesto tanto di te ai tuoi» confessa.
«Sai dove sono?» La mia domanda appare più fredda di quanto volessi in realtà. Lui torna nel suo spazio personale e annuisce contento, guidandoci verso il secondo piano, mentre ci spiega di aver affittato loro un suo secondo appartamento, rimasto vuoto per anni. Davanti alla porta della nuova casa dei miei, ci saluta compiaciuto e sparisce oltre le scale.
«Respira» mi sussurra Sarah. Respiro. A fatica, ma lo faccio. La guardo un'ultima volta, prendendo dai suoi occhi tutto il coraggio che mi serve. Le do un bacio, che subito ricambia, e busso. Una volta. Solo una.
Ad aprire è mio padre, che ci mette giusto due secondi a capire, prima di sorridere. Mi prende tra le braccia, sento i singhiozzi travolgerlo e qualche lacrima mi bagna il collo.
Non riesco a sciogliermi. Sono paralizzato.
Lui, forse percependolo, si stacca e sembra piombare in un imbarazzo improvviso. «Marta» balbetta impacciato, chiamando mia madre. Lei risponde, forse dalla cucina, chiedendogli spiegazioni che lui non riesce a darle.
«Io sono Sarah» interviene la mia ragazza, per smorzare il silenzio. Allunga la mano verso mio padre, che subito la stringe e le sorride.
«Insomma, stavo preparando il sugo che...» Le imprecazioni di mia madre si bloccano non appena spunta dalla cucina e mi vede. «Joseph» sussurra, prima di scoppiare a piangere anche lei.
È di nuovo Sarah a sconfiggere l'imbarazzo. Si presenta, scambia con i miei due convenevoli e poi chiede un bicchiere d'acqua. Mia madre ci invita sul divano e porta, su un vassoio che poggia al centro del piccolo tavolinetto in legno davanti al divano, acqua e succo di frutta. Rimaniamo in silenzio per un po'. Io mi guardo intorno. Sembra una bella casa. Pulita. Profuma di detersivo per pavimenti. Non c'è odore di sudore, di chiuso o di sporco. C'è luce, non c'è polvere, e il profumo del sugo inizia a farsi spazio.
«Volevo sapere solo come stavate» dico dopo un po', a bassa voce.
«Noi... noi stiamo bene» conferma mio padre. «Tu?» Ridacchio amaro. È la prima volta che mi fa questa domanda.
«Bene... sono felice, sono innamorato. Sto per laurearmi»
«Davvero?» Mia madre è stupita. Monica sa perfettamente i piani di Sarah per il futuro. Lei, al contrario, è stupita per la mia laurea.
«Servizi sociali» sussurro. «Ce n'è un gran bisogno» aggiungo, forse un po' troppo tagliente. Li vedo abbassare il capo. «Comunque» riprendo, «sono venuto qui perché... beh... per accertarmi che foste vivi, più che altro»
«Vi fermate per cena?»
«No» rispondo subito. «Abbiamo un altro impegno»
«Un'altra sera?» Respiro a fondo, chiudendo un po' gli occhi e frenando le lacrime che sento pronte a uscire. La mano sempre stretta in quella di Sarah. Mi alzo dal divano e lei mi imita, senza dire una parola.
«No» ripeto ancora. «Io vi perdono, davvero. Per tutto. Ho capito solo recentemente quanto non fosse vostra la colpa, ma della vostra dipendenza. Perdono anche lei, la dipendenza... ma non ho bisogno di altro. Io sono felice, adesso. Sono circondato da persone che mi amano, che mi rispettano e che mi proteggono. E non ho davvero bisogno di altro»
«Potremmo provarci...» azzarda mia madre. Mi stringo nelle spalle.
«Potremmo... non lo so... magari un passo alla volta, quando sarò pronto. Se mai vorrò»
Annuiscono alle mie parole confuse, accettando silenziosamente la mia decisione. Sanno che è questa, che non tornerò indietro.
«Grazie per essere venuti, comunque» sussurra mio padre, sorridendo appena.
«L'ho fatto per me. Per non lasciare che traumi passati mi rovinino la vita» dico duro. Duro e reale. È questa la verità. Non l'ho fatto per loro.
***
«Come ti senti?»
Siamo appena usciti da casa dei miei. La pioggia picchia furiosa sui finestrini della macchina e il riscaldamento mezzo rotto non scalda nulla.
«Pensavo peggio» rispondo onesto. Sarah sorride appena.
«Sei stato bravo... chiaro e diretto»
«A tratti confusionario, in realtà...»
«Nah... si è capito tutto. Io ho capito tutto e anche loro»
«Ho capito di non volerli davvero più nella mia vita. Ma, a differenza di ieri e di tutto il resto della mia vita, ora mi sento più leggero. Li ho perdonati davvero e mi sento come liberato di un peso» confesso, guardandola un attimo negli occhi e accogliendo tutto il suo sorriso comprensivo.
«Non ti dirò più nulla, te lo prometto»
«Non promettere... sai che non ti riesce stare zitta» ridacchio. Ma lei rimane seria e convinta.
«Non in generale, ovviamente. Insomma, sono io, mi ami per questo, no? Ma sui tuoi... ho sbagliato a pressarti e oggi l'ho capito davvero. È il tuo passato e, per quanto tu possa parlarmene, non lo capirò mai davvero. Quindi scusa, se sono stata invadente»
«Non scusarti... siamo arrivati a questo... e mi serviva» ammetto, togliendo la mano dal cambio e prendendo la sua.