JOSEPH
Nella mia vita ho sofferto tanto. Troppo, forse, per avere solo ventiquattro anni. Ho iniziato da bambino quando i miei, troppo concentrati sulle droghe, non facevano mai caso a me. Mi notavano solo quando dovevano picchiarmi. Ho imparato da piccolo a non istigare i grandi, a non provocarli, a non rispondere, a farmi i fatti miei. Perché ogni volta, una mia parola, anche la più innocente, innescava in mia madre e in mio padre reazioni al limite della galera.
Ricordo una volta, avevo tre o quattro anni. Avevo fame, non mangiavo da un giorno. Provai a chiedere qualcosa da mettere sotto i denti a mia madre. Lei mi guardò, col suo tipico sguardo svuotato, quello che aveva sempre, dopo ogni dose. Sembrò sorridermi, ma in lei vidi subito un ghigno infastidito e cattivo. Si alzò controvoglia dal divano, aprì la dispensa. C'era solo tonno in scatola e panne in cassetta. Aprì una scatoletta e me la ficcò in bocca, tagliandomi i lati delle labbra con la latta appuntita.
Non le chiesi mai più nulla, eppure le violenze non si fermarono. Mai.
Come dicevo, ho sofferto tanto nella mia vita. Eppure gli occhi di Sarah, fuori da quel locale, mi hanno provocato un dolore che non pensavo nemmeno esistesse. Non era il solito dolore fisico che in qualche giorno scompare. Il suo sdegno, la sua delusione, mi sono arrivati come una freccia impossibile da estrarre.
Ho imparato a ignorare i miei genitori, ho fatto pace con l'idea che non avrei mai avuto un certo tipo di amore da loro, che non l'avrei conosciuto. Quella consapevolezza, comunque, non mi ha mai fermato, non mi ha mai paralizzato. Lo sguardo di Sarah, al contrario, mi ha fatto sentire morto.
Ho passato i giorni successivi a sopravvivere, aspettando impaziente un momento libero per correre da lei e provare a scusarmi. Le prime due volte non mi ha aperto, nonostante io sia certo che fosse in casa. La terza volta, il fato ha voluto che ci fosse la madre, in casa. Lei non ha comunque voluto vedermi e a nulla sono servite le mie preghiere.
«È il suo compleanno» borbotto affranto, mentre stringo al petto un cuscino. Alice vorrebbe abbracciarmi, glielo leggo negli occhi verdi e spenti, che mi osservano preoccupati da giorni. Non sono uno da abbracci, io. Non mi piace il contatto fisico, non amo le smancerie.
«Vai da lei» mi sprona.
«Per farmi cacciare ancora?»
«E quindi? Deve vedere che ci sei, anche se pensa di non volerti vicino»
«Non mi vuole vicino, è stata chiara»
«È arrabbiata» prova a tirarmi su. «È arrabbiata, è delusa, è confusa. Ma pensi davvero non ti voglia?»
«Non lo so... non so che pensare. Ho fatto un casino e mi sento un idiota» sussurro, al limite del pianto. Io, che non piango mai. Nemmeno quando i miei mi massacravano di botte, riuscivo a versare una lacrima. Ho pianto più negli ultimi giorni, che in tutto il resto della mia vita. Non dormo da una settimana, mi sento sfinito.
Non ho più sentito Sofia, o Simone. Ho solo lavorato, seguito lezioni e passato le poche ore libere sotto casa di Sarah, nella speranza di vederla uscire.
«Devi fare qualcosa» sentenzia anche Azzurra, «perché io non posso avere uno zombie in libreria, mi spaventi i clienti». Prova a buttarla sullo scherzo e a me esce una mezza risata stridula. Annuisco. Hanno ragione loro, devo fare qualcosa.
Mi alzo dal divano, che aveva ormai preso la forma del mio sedere, mollo il cuscino, do a entrambe un bacio veloce e corro via, senza spiegazioni che, comunque, non chiedono.
Oggi è il suo compleanno ed io so perfettamente dove trovarla.
Cerco su Google Maps la posizione precisa di quel parco giochi a cui è tanto legata e in venti minuti ci arrivo, correndo come un ossesso tra le vie di Roma. Parcheggio poco distante e la vedo, rannicchiata su una panchina. Infreddolita, probabilmente, per colpa di quella felpa troppo leggera per una serata così pungente.
So che aveva immaginato un compleanno diverso. Non ne ha mai parlato molto, ma qualche volta ci ha fantasticato su. Poche persone, una pizza insieme, magari un dopocena in qualche locale karaoke. Niente di speciale, niente di elaborato. Perché a lei non serve nulla di elaborato per essere speciale. Lo è già.
«Buon compleanno» sussurro, impaurito. La vedo voltarsi di scatto. Mi guarda, sorpresa. Ha gli occhi rossi, segno di un pianto che non l'ha abbandonata per giorni. Mi avvicino piano.
«Come mi hai trovata?» chiede subito, sulla difensiva. Sorrido appena e mi siedo accanto a lei, attento a non sfiorarla.
«Mi hai parlato di questo posto... ricordi?»
«Pensavo non lo ricordassi tu» afferma tagliente.
«Io ricordo tutto ciò che mi hai detto. Mi ricordo di quanto sei stata male per la chiusura di questo parco»
«Sai qual è il problema? Che anche io ricordo tutto... mi avevi promesso che mi avresti aperto gli occhi»
«Lo so» sospiro abbassando il capo. Ha ragione, gliel'ho promesso, guardandola negli occhi. E lei si è fidata. «Mi dispiace» aggiungo. Mi alzo dalla panchina e mi posiziono davanti a lei. Ha la testa abbassata, così decido di accovacciarmi per guardarla negli occhi. Ha ricominciato a piangere ed io devo trattenermi per non imitarla. Azzardo e le stringo le mani tra le mie. Lei è immobile, fredda, ma non mi allontana anzi, inaspettatamente, finalmente, mi guarda.
«Mi sento una stupida» ammette.
«Non sei una stupida. E ti chiedo scusa. Scusa per tutto. Non sono bravo con le persone, non sono bravo con i sentimenti. Mi sono sempre fatto gli affari miei per non creare casini. Non mi fido di chi ho intorno, sono schivo, sospettoso. Quando ho scoperto di Simone, mi sono arrabbiato come mai in vita mia e gliene ho parlato. L'ho pregato di dirtelo, perché pensavo dovesse dirtelo lui. Meritavi la sua sincerità. Abbiamo litigato per questo... perché lui continuava a dirmi che te ne avrebbe parlato e poi non lo faceva mai»
«Perché non sei venuto tu a dirmelo?»
«Perché, nonostante tutto, Simone era mio amico. Continuava a pregarmi di non dirti niente, a promettermi che te ne avrebbe parlato... mi sono fidato. Ti chiedo scusa per tutto, Sa'. Per tutto. E anche per la reazione dell'altra sera»
«La donna che ami e il tuo migliore amico ti avevano appena tradito... ci sta»
«No, non ci sta. Non sono un violento, non lo sono mai stato. E se avessi scoperto un altro tradimento di Sofia, non mi sarebbe importato. Non credo di amarla, in effetti. Non la amo da tempo, forse non l'ho mai amata davvero. Ma il tradimento di Simone... quello mi ha fatto male. Pensavo di potermi fidare, nonostante tutto...»
«Simone è un egoista, un traditore, un bugiardo... e tu non sei poi così bravo a capire le persone» ridacchia. E, per la prima volta, riusciamo ad alleggerirci entrambi. Mi siedo accanto a lei, trascinandola verso di me. Si lascia andare alla mia stretta che, presto, ricambia, accoccolandosi meglio sul mio petto.
«Vogliamo entrare?» sussurra.
«Dove?»
«Nel parco... non c'è nessuno, non ci sono telecamere...»
«Ogni suo desiderio è un ordine, signorina» dico sciogliendo l'abbraccio, alzandomi e porgendole la mano come un perfetto gentiluomo. Lei ridacchia ancora, con gli occhi pieni di una luce sfavillante che non vedevo da un po'. Una luce radiosa, che illumina anche me. Mi prende la mano divertita e si lascia guidare, saltellando verso quel posto che l'ha vista crescere.
Buongiorno e buona domenica bellezze!
Eccoci qua col cambio pov. Devo ammettere che sono euforica per questo capitolo: ho amato particolarmente scriverlo, perché la testa di Joseph mi incuriosisce e mi stimola e spero davvero che possiate apprezzarlo anche voi.
Non ho molto da dire, credo sarebbe tutto superfluo, quindi, semplicemente, lasciatevi guidare dalla storia.
Come al solito, spero vi piaccia. Fatevi sentire sotto, amo leggere i vostri commenti <3
A domani :)