Capitolo 8

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SARAH

Il lunedì mattina è sempre una tortura. Suona la sveglia e mi catapulta in un mondo reale con cui, dopo il weekend, non voglio mai fare i conti. Mi sveglio, mi alzo dal letto, mi trascino in cucina per una colazione veloce, poi dieci minuti di skincare, una truccatina leggera, vestiti addosso, zaino in spalla e sono pronta.

Piove. E si sa, Roma e la pioggia non sono mai andate d'accordo. Il traffico triplica, le strade rallentano e i guidatori sono più nervosi di un leone affamato.

Seduta alla fermata, in attesa del mio autobus, scorro un po' la home di Instagram e presto mi accorgo di una notifica. È Joseph, ha cominciato a seguirmi. Sorrido spontaneamente e ricambio subito. Mi perdo un po' nel suo profilo: poche foto, esattamente da lui, per lo più di paesaggi e pagine di libri. Ce n'è solo una che attira la mia attenzione: è di qualche anno fa. Lui è più piccolo, senza barba, ma con quegli stessi occhi profondi con cui mi guarda ogni volta. È seduto su un divano sgangherato, con un sorriso tirato sul viso messo su solo per quella foto fatta, sicuramente, contro voglia. Una donna lo abbraccia e lui sembra infastidito. Una donna che è la sua fotocopia, con lo stesso sorriso malinconico e gli stessi occhi profondi. Nessuna didascalia, pochi mi piace e un solo commento, "sei la mia vita", lasciato anni dopo quello scatto.

Sospiro. Non so niente di lui, eppure quel commento isolato, senza alcuna risposta, mi inquieta e mi rattrista. Penso a mia madre e a mio padre, al nostro rapporto. Non siamo una famiglia perfetta ma siamo una famiglia. Persone che si amano incondizionatamente, che si supportano nonostante tutto. Joseph non parla mai della sua famiglia. Da quando lo conosco, non l'ho mai sentito nominare i genitori, o qualche zio, fratello, cugino. Sembra essere solo al mondo.

Il mio autobus arriva e, dopo un tempo che appare infinito, mentre la pioggia batte violenta sui vetri del mezzo, arrivo a scuola. La campanella non è ancora suonata, ho il tempo per un caffè. Raggiungo in fretta le macchinette e vedo Letizia, che ha avuto la mia stessa idea. Mi saluta e, senza che debba chiederglielo, prende un caffè anche per me, facendomi saltare la fila. Me lo porge e comincio a soffiarci su.

«Com'è andato il weekend?» Lei è stata fuori due giorni, non sa niente di sabato sera, di Simone, della discussione.

«Poteva andare meglio, Simone è un coglione» borbotto, raccontandole dettagliatamente gli ultimi giorni.

«Quindi, Jo ti ha riaccompagnata a casa». Strabuzzo gli occhi.

«È l'unica informazione che il tuo cervello ha elaborato?» chiedo con un tono forse troppo pungente. Ma, insomma, è la mia migliore amica, davvero non ha altro da dire?

«Vuoi che ti dica ancora quanto trovo Simone inadatto a te? Sai come la penso» risponde. Sospiro, bevo in un sorso il caffè e butto il bicchierino nel sacco della plastica. Fortunatamente arriva il suono fastidioso della campanella a stroncare sul nascere una conversazione che, so per certo, non porterebbe a nulla di costruttivo. Ci trasciniamo in classe, dove ad attenderci c'è già il professore di filosofia seduto sulla cattedra. Quanto gli piace fare l'anticonformista sessantottino, al nostro prof!

La mattina procede lenta e noiosa. È lunedì per tutti, e nessuno sembra aver voglia di viverla, questa giornata. Passo la ricreazione a messaggiare con Joseph che, dopo qualche like sparso, mi ha scritto per ricordarmi del libro e per chiedermi come stessi.

Finite anche le ultime due ore, ributto tutto nello zaino e aspetto Letizia, più lenta di me.

«Studiamo insieme oggi?» mi chiede seguendo la scia di studenti palpitanti nel guadagnare l'uscita.

«No, oggi ho da fare». Rimango sul vago e i suoi occhi indagatori mi mettono in soggezione. Non voglio dirle dell'appuntamento con Jo, sarebbe solo un motivo per l'ennesima litigata.

«Ti vedi con Simone?» chiede, giudicante.

«No, ho da fare con mia madre» taglio corto e la saluto, incamminandomi verso la fermata. Ho detto a Simone di non venire a prendermi e la sua risposta telegrafica è stata "Tranquilla, non potevo".

Mentre aspetto di nuovo l'autobus, provo a chiamarlo. Insomma, in qualsiasi rapporto sano si discute. Si discute, ci si confronta e si fa pace.

«Tutto bene?» esordisce lui, senza nemmeno salutare.

«Ciao eh» rispondo, piccata. Mi sta innervosendo. È da sabato che sono nervosa per lui, ma non sembra importargli.

«Sarah, sono in aula studio. Che c'è?» Sospiro, abbassando la testa. Non voglio piangere, ma le lacrime iniziano a fare capolino. Sono una bambina scema. Una stupida immatura. Vorrei solo parlare con lui, come due adulti.

«Volevo sentirti... non ci sentiamo da due giorni, in pratica». Lo sento sbuffare dall'altro capo della cornetta.

«Mi dispiace per sabato» dice dopo un po'. «Sai Marco non lo vedo mai, vive fuori Roma, torna raramente. Volevo solo passare una bella serata con lui»

«E dovevi per forza ignorarmi o farmi sentire una sciocca?»

«Non volevo ignorarti o farti sentire una sciocca. Non penso tu sia una sciocca. Ma, appunto perché non lo sei, devi ammettere di essere stata un po' immatura. Non puoi sempre stare al centro dell'attenzione. Lo capirai crescendo». Annuisco, nonostante non possa vedermi. Forse ha ragione.

«Scusami, mi dispiace» bofonchio. Lo sento ridacchiare e so che se fosse qui, mi prenderebbe il viso tra le mani e mi darebbe tanti dolci baci.

«Non c'è bisogno di scusarti, ho già dimenticato tutto. Ma tu pensaci, la prossima volta. Non sono tuo padre, queste cose devi notarle da sola» quasi mi rimprovera. Io annuisco ancora. Vorrei ringraziarlo, perché ogni volta mi aiuta a crescere, mi sprona, mi tratta da adulta come mai nessuno prima d'ora. Lo saluto, per non rubargli altro tempo, mentre il mio autobus arriva. Decido di non salire, e mi incammino nella direzione opposta.

L'appuntamento era alle cinque di pomeriggio, è vero, ma dovrà pur pranzare.

Arrivo in libreria dopo essermi fermata a prendere due tramezzini al bar di fronte. Entro e lo vedo preso a sistemare pile di libri. Lo osservo e mi sembra di vederlo per la prima volta: è sereno, nel suo mondo. Si ferma a guardare ogni copertina che gli passa in mano, odora la carta nuova, legge le sinossi. E sistema tutto con una cura quasi maniacale.

«Che ne dici di una pausa pranzo?» esordisco, sventolando la busta del bar. Lui si volta calmo, mi guarda e sorride.

«Non si era detto alle cinque?» Alzo le spalle, fingendo un'espressione innocente.

«Sì ma... insomma... so che ti piace mangiare, non ti avrei mai lasciato a digiuno» mi giustifico, tendendogli la bustina bianca. Ci guarda dentro ed estrae i due tramezzini. Uno tonno, pomodoro e alici, l'altro cotto e formaggio.

«Quale preferisci?» mi chiede.

«Indifferente, scegli tu»

«Impossibile, devi avere una preferenza» si impunta.

«Anche tu» ribatto.

«Ok, ma te l'ho chiesto prima io»

«E io ti sto offrendo il pranzo. Scegli». Li guarda di nuovo, poi guarda me. Li apre, li divide a metà e me ne porge una di ognuno su un tovagliolo.

«Un po' per uno» dice vittorioso. Io lo guardo, mi perdo un po' nei suoi occhi e sorrido a mia volta. E, dopo due giorni di inferno, finalmente mi sento bene.

Sai di nuvola // HoldarahDove le storie prendono vita. Scoprilo ora