36

23 2 4
                                    




HELL

Avete mai contato i vostri respiri fino a perdere il conto? Fino a non sapere più se stai respirando a forza, oppure no. Se stai respirando solo perché stai contando, oppure perché devi continuare a vivere.

Lo facevo spesso, anni fa.
È un'abitudine che ho preso da quando ho visto Heaven farlo dentro la sua cella.
Guardarla mi calmava. Ma quando tornavo alla realtà, tutto tornava a schiacciarmi. Il peso di ogni cosa mi assaliva, spingendomi sul bordo del mondo. E adesso, adesso che devo incontrare di nuovo mio padre, tutto torna a schiacciarmi.

Qualche giorno fa sono andato da lui, perché mi è stato chiesto di verificare se lui sapesse qualcosa sulla "chiave" per rendere il pianeta abitabile. Ma lui non ne sa niente. Era Roxanne ha occuparsi di quello, non lui. Non era il suo campo.

Lo fisso attraverso il vetro della sala degli interrogatori, con la rabbia che mi scorre nelle vene. Doveva essere viva mia madre non lui.

È stato legato alla sedia, con al collo, ai polsi, alle caviglie, e intorno al petto, delle specie di collari freddissimi, che servono a neutralizzare il suo calore. Inoltre ha dei cavi attaccati alla fronte che servono per indebolirli la mente, o qualcosa del genere. Non ho prestato attenzione a quello che mi ha detto il tipo della sicurezza, quando mio padre mi fissava attraverso il vetro.

Quello che so, però, è che soltanto i GM possono accedere alla sua stanza. Ovviamente per ragioni di sicurezza avanzate, dato che anche lui è un GM.

Prendo un lungo e profondo respiro, lancio un'occhiata ai segni rossi sul mio polso, ed entro nella cella. Fanculo.

Mio padre alza lo sguardo fissandomi mentre mi avvicino al tavolo. Sposto la sedia d'un lato, non ho intenzione di sedermi. Questa volta voglio essere io a guardarlo d'alto verso il basso.

Appoggio le mani al tavolo, e la camicia mi si tira un po' su scoprendomi i polsi.
Quando la scorsa volta sono venuto qui, gli ho messo di persona delle manette ai polsi. Non che ne avesse bisogno, dato che è già incollato a quella sedia con quei apparecchi tecnologici. Ma l'ho fatto per un motivo preciso.

«Stringono le manette, vero? Senti il ferro lacerarti la pelle, un bruciore allucinante, perché i tagli si fanno sempre più profondi. Senti il sangue colarti lungo il polso, e il dolore lancinante ti tiene così sveglio che la notte non riesci nemmeno a chiudere occhio. Le manette sono così strette che il sangue a momenti non passa neanche.» Lo guardo dritto negli occhi, e dico: «Ma tu ovviamente lo sapevi già questo. Lo sapevi già quando me le hai messe ai polsi, lasciandomi queste cicatrici.»

«Ti ho reso forte. Ti ho reso invincibile. Sii riconoscente. È merito mio se sei la persona che sei adesso. Comandi questo posto insieme ai tuoi amichetti, non è vero? Ma è grazie a me se ne sei all'altezza.» Mi dice.

«No, affatto. È solo grazie a Heaven e ai suoi amici. Sono loro ad avermi insegnato a come essere umano. Come avere sentimenti. Ma non ti preoccupare, i tuoi insegnamenti non gli ho scordati. Li ho ancora ben impressi nella mia mente.» Tiro fuori dalla tasca un coltellino, e lo apro, facendo uscire la lama. Mi avvicino a lui, e gli giro intorno.

Non ho scordato nulla.
Niente di niente.
Anzi, adesso ricordo solo meglio.

«Ricordo tutti i tuoi regali di compleanno. Ricordo quando mi hai insegnato a torturare. E vuoi sapere come mi ricordo bene?»

«Ho già perso il conto di quante volte hai tentato di uccidermi. Avanti, falla finita con questa scenetta. Mi avete messo questa roba alla testa, ma il mio sistema immunitario mi riporterà comunque in vita. Nemmeno una vasca congelata servirà a neutralizzarmi. Controllo le temperature come voglio, e a mio favore.»

«Lo so benissimo, credi che non ci abbia già pensato?» Dico, tornando a guardarlo negli occhi. «Ti ucciderò questa volta. Siamo io e te in questa stanza, e ho tutto il tempo che voglio. Anche giorni, volendo. Ma ti ucciderò. Ti ucciderò questa volta.»

«Lo racconterai poi alla tua bella fidanzatina? E ai tuoi figli? Ti prego, non farli crescere come se fossero degli stupidi bambolotti. Racconta al loro compleanno come hai ucciso tuo padre, così crescono con un po' carattere. Raccontali come mi torturerai, avanti.» Dice, scoppiando in una risata così folle da farmi venire voglia di cucirli la bocca, così che non possa più ridere.

La rabbia mi sta divorando vivo.
Scatto verso di lui, e premo il coltello nel suo fianco, affondando la lama fino al manico. Premo con forza, guardandolo dritto negli occhi mentre dico: «Osa nominarla anche solo un'altra volta e ti farò pentire di non avermi ammazzato quando avresti potuto. E che sia chiaro, i miei figli cresceranno come mia madre ha tentato di crescermi. Come tu avresti dovuto crescermi.» Giro il coltello dentro la sua carne, lacerandoli la pelle. Il sangue mi cola sulla mano e finisce sul pavimento.

Lui si lamenta, con i muscoli tutti testi, così come la sua mascella. Stringe i denti per non urlare, ma tra poco non potrà farne a meno.

Tiro via con forza il coltello, e glielo porto sul viso, sporcandolo con il suo stesso sangue. I nostri occhi si fissano, ma la differenza è che i suoi vacillano, mentre i miei ardono come il fuoco. 

«Ti dimostrerò come sono cresciuto» dico, mentre premo la lama sulla sua guancia.
«Ti mostrerò quello che mi hai insegnato, prima di cancellarlo dalla mia mente. Desidererai morire, fidati. Perché il dolore che mi hai inflitto per anni, ora è diventata la mia arma. Ora è potere.»

Tiro via il coltello, dopo averli lasciato un taglio lungo il lato sinistro del viso. Pulisco il coltellino sulla sua tuta arancione con un sorriso sulle labbra. Non sorrido perché sono felice, ma perché so di aver mantenuto le redini durante questa conversazione. Sono stato io ha iniziarla e a finirla. Non lui, questa volta. Lo guardato tutto il tempo negli occhi, quando anni fa avrei desiderato scomparire sotto il suo sguardo.

Ora non mi spaventa più.
No, ora sono io ad intimorirlo.

Mi allontano, getto il coltellino nella mia sedia, e, con il walkie-talkie che mi hanno dato quelli della sicurezza, chiedo di portarmi quello che li avevo fatto mettere da parte, e di spegnere le videocamere della cella. Lancio un'occhiata a mio padre, e aggiungo: «Portatemi anche un po' d'acqua e sale.»

𝑷𝑶𝑾𝑬(𝑹𝑬𝑫)  -𝒾𝓃𝒻𝑒𝓇𝓃𝑜 𝑒 𝓅𝒶𝓇𝒶𝒹𝒾𝓈𝑜-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora