Spezzare la catena

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Forse era pieno mattino o forse era notte torbida.

Forse era pensiero, forse era parola.

Forse era la mia stanza, forse non era nessun luogo.

Era il vuoto ed il vuoto non possedeva né forma né colori, impossibile a vedersi e ancor più impossibile a toccarsi, un'oscillazione incessante tra realtà e fantasia, esistenza e assenza; a riempirlo era però la materia di carni e voci umane, sussulti e singhiozzi come cinguettii di passeri all'alba di un giorno qualsiasi, respiri profondi a un punto tale da avere una gravità propria nel mondo in cui il tutto e il niente entravano in comunione, attirandolo a sé.

L'aria aveva un odore strano a disperdersi in una bruma invisibile, un aroma di sudore che evaporava a lentezza quasi angosciante.

Solo una saldezza per me, un unico punto stabile e seduttivo a cui aggrapparmi in quel pendolo sempre in moto tra esisto e non esisto.

Mani forti e salde sul mio corpo, tocchi come ustioni che medicavano e da medicare, a seminar le loro impronte ovunque fino a modellarmi la carne e timbrarla, toccarla per farsi toccare, scioglierla abbastanza da poterle dar nuova forma grazie al perfetto equilibrio di danza e maestria delle loro dita e palmi.

Mi ritrovai a chiedermi perché non avessi paura, pur percependo quel contatto fisico e umano, pur essendo nuda ovunque, spoglia sia dei miei abiti che delle mie preoccupazioni, ma quello strano effluvio nell'aria mi inebriava quasi fosse mischiato all'alcool: i pensieri si liquefacevano sempre di più con il procedere intenso dell'esplorazione per dar spazio all'incoscienza.

Non vedevo niente, ma sentivo come da anni non mi capitava o forse come non mi era mai capitato; ero creta che si trasformava, plasmata da quelle mani che erano la sola cosa certa e immutabile del vuoto.

Scivolavano e lambivano le mie carni senza fermarsi mai disgustate per il grasso in eccesso, le forme rotonde e asimmetriche di quel corpo gonfio e irrobustito, al contrario lo contemplavano in venerazione fino a trasformare il peso di troppo in curva e voluminosità perfetta, non più leggera ma senz'altro più amata. Se primo ero solo un arbusto rovinato e orfano di fiori, con la loro sensualità diventavo un albero centenario dalla chioma rigogliosa, foglie pregiate, corolle e frutti a impazzire tra le sue ciocche.

Stuzzicavano senza mai provocare davvero, come sussurri invece che voci sicure andavano a soffiare coi polpastrelli sui punti di me che più le attendevano: i seni gonfi, appesantiti dalla smania, quasi a straziarsi per esser avvolti dai loro palmi, con le punte in trepidazione che li chiamavano, e le gambe che tremavano per il desiderio sfrenato di esser schiuse. Il centro in cui quest'ultime si incontravano pulsava con violenza, un altro ossimoro vi si incarnava: la tesi del fuoco più caldo che si sposava con l'antitesi del bagnato.

Un singhiozzo, l'ennesimo, mi sfuggì dalle labbra, la mollica di una voce che non avrei mai creduto potesse appartenermi; cadde dalla bocca schiusa nell'attimo stesso in cui finalmente le mani esaudirono il mio desiderio: infilarono le dita tra le cosce serrate, poco sopra quel nucleo di calore e rugiada, con la delicatezza di una carta sottile che si intrufola nella fessura quasi inesistente tra una porta e il suo infisso, per poi spalancarle con uno scatto feroce e rivelare il mio ingresso.

Il cuore si scosse contro lo sterno, un nuovo singhiozzo, ma realizzai presto che non era più singhiozzo soltanto, era un gemito felice, di eccitazione, e ora il mio corpo era frutto pronto per esser colto, saggiato e bevuto, ora ero io desiderio, anima e pelle, bisogno e carne.

Udii una risata sottile, maliziosa, a respirare proprio sopra la parte di me che più soffriva e si emozionava nell'ascoltarla, il mio ossimoro più grande; il soffio freddo di tale riso su quel punto bollente, invece che estinguerne l'incendio, lo fece divampare con furia, senza freno, immergendolo più a fondo nel suo contrasto bagnato. Stilettate vere e proprie andarono a colpirmi nei vuoti tra le costole.

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