Jane Mitchell

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Si chiamava Jane Mitchell.

Trovai l'articolo su di lei due ore dopo che Dante era andato a lavorare, lasciandomi sola nel mio appartamento. Avevo temporeggiato a lungo, per molto tempo, prima di cedere del tutto alla tentazione di scoprirne di più, di poter capire meglio quel ragazzo con cui, volente o nolente, mi stavo legando in quel modo, quella famiglia su cui gravava una storia che già sapevo esser crudele.

Ma non avevo mai immaginato così tanto.

Jane Mitchell, così si chiamava la madre di Dante e dei gemelli, era da lei che Dante aveva ereditato il cognome.

Quarantun anni, lavorava come donna delle pulizie, tutti e tre i figli avevano preso i suoi occhi sia nel colore che nella forma: ambrati, intensi, ben aperti e decorati da una corolla folta di ciglia. L'unico tratto somatico che accumunava i gemelli al fratello maggiore.

Ma il primogenito era stato il solo ad assomigliarle in tutto e per tutto. Aveva la sua carnagione olivastra, i capelli castano scuro morbidi e lisci, i lineamenti marcati, un po' spigolosi, il naso dritto, l'espressione appena severa.

Era bella come non mai, non dimostrava neanche i suoi anni, nelle foto che i vari giornali riportavano, sembrava una trentenne o poco più. Aveva una lunga chioma setosa e l'aria di una donna capace di apprezzare la vita in qualsiasi sua sfumatura, in netto contrasto con lo sguardo un po' austero che le calcava il viso.

Non ebbi modo, però, di godere appieno del suo fascino, di lasciarmi cullare da esso, perché sopra tutte le sue foto che apparivano su internet appariva anche un termine ormai noto al mondo intero quanto il nome di mio padre, forse persino di più, poiché piaga e crudele fato di troppe donne. Un termine che aveva fatto più vittime di quante ne avesse fatte Lawrence Reid.

Femminicidio.

Ad ucciderla era stato il suo compagno, Ryan Johnson, il 23 settembre di cinque anni prima, a notte fonda. Si trovavano in una strada desolata del quartiere, in quel momento completamente deserta. Stando a quanto ipotizzato dalla polizia grazie alle varie testimonianze, lei era andata a ripescarlo dopo che lui era uscito di nuovo per bere, durante il viaggio di ritorno avevano litigato furiosamente e Jane aveva accostato e fermato la macchina, forse per provare a calmare sia sé stessa che il compagno.

Ma non aveva funzionato.

La litigata di sicuro era peggiorata drasticamente, al punto che Ryan, ubriaco fradicio, l'aveva strozzata fino ad ucciderla e poi, una volta resosi conto appieno di quanto fatto, si era gettato dal cavalcavia che delimitava la strada da un dirupo.

Era morto sul colpo.

Ryan Johnson, quarantasette anni, era la copia sputata dei gemelli. Da lui Dory e Dorian avevano ereditato la carnagione rosea, i capelli così biondi da sembrare filigrana, la morbidezza dei tratti e la carnosità delle labbra, persino l'ombra birbante che calcava sempre tutti i loro sorrisi.

Da quanto dicevano i vari articoli di giornale, Ryan, agli inizi, non era mai stato una persona violenta. Aveva un carattere mite, dolce, addirittura delicato. Tutti lo definivano un uomo sicuro di sé ma mai arrogante, qualcuno che sapeva sempre qual era la sua strada e come percorrerla. Un devoto padre di famiglia e compagno, amava Jane alla follia, e il vero motivo per cui non si erano mai sposati era perché Jane sognava un matrimonio in grande e stavano, pian piano, mettendo da parte i soldi per poterlo realizzare.

Questo, almeno, fino a quando, due anni e mezzo prima della tragedia, lui non aveva assistito a un'altra tragedia.

Il suo collega di lavoro nonché grande amico, Ben Logan, operaio come lui, era finito per sbaglio per cadere nella gigantesca macchina tritarifiuti dell'azienda di cui erano dipendenti. Era morto nell'agonia e nello strazio più grande proprio davanti agli occhi di Ryan, il quale non aveva potuto fare niente per salvarlo, solo assistere inerme e impotente alla sua sofferenza e alle sue grida.

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