La sala colloqui quel giorno era più sfoltita del solito, e forse questo era dovuto al fatto che, quel martedì mattina, aveva più piovuto così forte da spaventare quasi, i chicchi d'acqua sembravano sul punto di sfondare il cemento, tanto cadevano violenti a terra.
Ma non appena ero entrata in carcere, quella pioggia era cessata. Adesso, dalla piccola finestrella della sala, l'unico filtro con cui guardare al mondo di fuori, oltre quella prigione, si scorgeva un cielo più sereno che mai, come se mai fosse stato dilaniato da quel temporale e quelle lacrime furenti.
«Bambina, sembri un po' più riposata oggi.»
Feci ricadere lo sguardo dalla finestra a mio padre, dall'altro lato del tavolo dove eravamo seduti, le manette sempre alle mani, vincolate al ripiano. Gli occhi soffocati dalle rughe incontrarono i miei.
«Hai ancora le occhiaie, ma meno delle volte scorse» continuò, con quella sua voce baritona che mi straziava e allietava nello stesso momento. «Sei riuscita a dormire un po'?»
Chinai lo sguardo sulle mie mani, i guanti di quel giorno, di un celeste indaco. Diciannovesimo Natale. Uno dei suoi mille regali.
«Sto bene» risposi soltanto. «Tu sei dimagrito ancora.»
Era la verità. Papà aveva perso ancora peso, lo si scorgeva ad occhio nudo, presto avrebbero dovuto dargli un'altra divisa del carcere, perché quella che indossava già gli andava larga.
«Il cibo qua è tremendo» disse, e già sapevo che stava mentendo, glielo leggevo negli occhi. «È un ottimo pretesto per mettersi a dieta.»
Strinsi le labbra, lui corrugò appena la fronte.
«Bambina» mi chiamò all'improvviso, «ti ricordi il detective Mirren?»
Mi accigliai.
Il detective Mirren era stato uno degli agenti federali che si era occupato del suo caso, forse colui che più di tutti se ne era preso carico. Era un uomo sulla cinquantina proprio come papà, dai capelli castani a taglio militare, un corpo compatto dai mille muscoli e la pelle color cioccolato. Era colui con cui avevo passato più ore, nella sala interrogatori, a rispondere alle sue domande, quello che mi aveva portata all'hotel in cui poi avevo alloggiato nelle settimane successive, perché casa nostra era sottoposta alle indagini della scientifica.
Di tutti i poliziotti che avevo incontrato, nel corso di quel periodo, era uno dei pochi che mi era piaciuto. Benché come tutti quanti sospettasse di me e dubitasse delle mie parole, non aveva mostrato quel dubbio negli occhi né l'aveva usato per condannarmi sul posto.
«Cosa c'entra lui?» domandai a quel punto.
«L'ho contattato, ho chiesto il permesso al direttore del carcere.»
Sgranai lo sguardo, papà accennò un leggero sorriso. «Gli ho chiesto» proseguì, «se fosse possibile per te ottenere una nuova identità.»
Un brivido di ghiaccio mi trafisse la schiena, con così tanta crudeltà che non ebbi la capacità di rispondere.
«Papà, non ho bisogno di una nuova identità.»
Lui sospirò, tamburellò gli indici sul tavolino. «Bambina» disse, «quello che la gente ti sta facendo, il modo in cui mondo ti sta condannando, non te lo meriti.»
Un reflusso acido mi risalì in gola, mi costrinsi a mandarlo giù, a non tremare su quella sedia d'acciaio scomoda.
«Lo so che non mi credi» proseguì lui, «il tuo animo gentile, quella bontà che ti ha sempre caratterizzata, è sia la tua più grande qualità che il tuo difetto peggiore. Per colpa sua, tendi sempre ad attribuirti colpe che non hai. Come quando, in quinta elementare, quel bambino ti ha spintonata e fatta cadere dalle scale. Non volevi dirlo agli insegnanti perché credevi di esser tu ad averlo provocato, dato che non avevi voluto dargli i tuoi compiti.»
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Ignobili affetti
ChickLitAgatha e Lawrence sono figlia e padre e il loro era un amore talmente profondo da non lasciarsi fermare nemmeno dal grande ostacolo che li separava: i loro rispettivi segreti. Insieme, infatti, avevano riscoperto l'incanto e la meraviglia dell'affet...