«Hai di nuovo le occhiaie, bambina.»
Sollevai lo sguardo dal tavolino in metallo davanti cui ero seduta per rivolgerlo a mio padre dall'altra parte. La divisa arancione gli andava larga, ormai, aveva perso di nuovo peso. I capelli un tempo corvini, adesso sale e pepe, gli contornavano la testa come sottili trucioli, e il volto era devastato da rughe non di vecchiaia, bensì di stanchezza e angoscia, nate, cresciute e ramificatesi da quand'era stato arrestato.
Aveva appena cinquantaquattro anni, eppure, a vederlo, chiunque gliene avrebbe dati almeno settanta.
Mai l'avrebbe riconosciuto nel padre che mi aveva cresciuta da che ero una bambina, quell'uomo sempre vestito con cura, sempre attento al proprio aspetto, che passava ore a sistemarsi i capelli e mostrava una decade di meno rispetto agli anni che indossava davvero.
L'unico elemento che era rimasto uguale da allora erano gli occhi: di un nocciola scuro e intenso, dalla tonalità del caffè, il modo in cui sembravano scartavetrarti l'anima stessa fino a farne emergere ogni segreto.
Quegli occhi ora mi scrutavano con una preoccupazione che mi era ben nota, identica a quella che mi aveva rivolto la prima volta che avevo provato ad andare in bici senza il sostegno delle rotelle e delle sue mani, quella che mi aveva rivolto quando a causa di una brutta influenza avevo avuto la febbre alta per giorni, quella che mi aveva rivolto quando ero svenuta dal nulla a causa dell'appendicite e mi avevano dovuto operare d'urgenza.
«Quanti giorni sono che non dormi come si deve?» continuò imperterrito.
Nella sala d'incontri non eravamo da soli. Altre famiglie stavano incontrando i detenuti, ai tavoli attorno a noi, sparpagliati qua e là nella stanza; ognuno di loro, proprio come noi, stava attento a non farsi sentire troppo.
Ma Lawrence, mio padre, era l'unico carcerato che era stato ammanettato al ripiano del tavolino.
Lo facevano sempre, ogni volta che ci incontravamo.
Troppo pericoloso, dicevano, troppo.
E sapevo anche che avevano ragione.
Ma comunque, lo stesso, non potevo che adirarmi per ciò.
Nemmeno io sapevo spiegarmelo, nemmeno io sapevo più comprendermi, ormai.
Ogni volta che lo andavo a trovare, il martedì, mi ritrovavo sempre vittima di uno scontro straziante che collimava nell'attimo preciso in cui mi sedevo a quel tavolo, lui veniva portato lì dalla guardia e i nostri sguardi si incrociavano.
Quando mi svegliavo, ogni martedì mattina, non appena mi sollevavo a sedere sul letto e scivolavo dal materasso, l'unica emozione che provavo al pensiero di rivederlo era un'ira talmente funesta e dilagante da arroventarmi ogni respiro, mutare l'aria in miasma. I polmoni si trasformavano in sacche di fuoco, il cuore un vulcano e il sangue magma puro ad ustionarmi sotto la pelle.
Passavo l'ora e mezza che impiegavo per prepararmi e partire con la macchina a immaginare scenari in cui gli urlavo e sbraitavo contro come un animale, lo insultavo, lo ripudiavo, gli sputavo in faccia, gli vomitavo addosso quell'odio primitivo che s'ingozzava dei miei visceri da quando quell'incubo era cominciato.
Sognavo di prenderlo a schiaffi, colpirlo in testa con la sedia fino a sfondargli il cranio e il setto nasale, rendergli il volto irriconoscibile, picchiarlo con una forza che già sapevo di non disporre ma comunque mi illudevo di possedere, fino a costringere le guardie carcerarie a portarmi via, trascinarmi lontano per impedirmi di ammazzarlo.
E gridavo, gridavo e gridavo, con urli bestiali che facevano da colonna sonora alle lacrime che mi masticavano il viso, fantasticavo su come lui si sarebbe squarciato davanti a una reazione del genere da parte mia, al modo in cui i suoi occhi sarebbero stati dilaniati dall'orrore e l'agonia che nemmeno il suo segreto l'aveva indotto a provare.
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Ignobili affetti
ChickLitAgatha e Lawrence sono figlia e padre e il loro era un amore talmente profondo da non lasciarsi fermare nemmeno dal grande ostacolo che li separava: i loro rispettivi segreti. Insieme, infatti, avevano riscoperto l'incanto e la meraviglia dell'affet...