Fiocco

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Il primo mese dopo essermi trasferita nella villa di mio padre, in Arkansas, lo passai a cercare di ambientarmi alla mia nuova situazione: l'afefobia, la casa sconosciuta, il padre sconosciuto, il posto sconosciuto.

Papà diede il massimo per agevolarmi e farmi sentire al meglio, me ne accorsi persino io, che avevo solo dieci anni.

Mi aiutava con gli esercizi da fare che mi aveva assegnato la psicologa di quel posto per poter aumentare il periodo di tempo con cui ero in grado di avere un contatto fisico con un'altra persona, sia attraverso i vestiti che a pelle nuda.

Quando mi ritrovavo a sudare copiosamente, a tremare, sul punto di scoppiare a piangere a causa di quella paura folle, durante quegli esercizi, correva in cucina, spariva lì per qualche minuto, per poi ritornare da me con una tazza di cioccolata calda dentro cui galleggiavano marshmallow minuscoli a forma di stelline.

«Devi berla tutta» mi diceva sempre, «hai idea di come mi ha guardato la commessa, quando ha visto un adulto come me comprarsi quei marshmallow? La mia povera dignità!»

Lo diceva con un tono talmente teatrale che non riuscivo proprio a prenderlo sul serio, e quando sorseggiavo quella cioccolata, mi accorgevo che a scaldarsi non erano solo la gola e lo stomaco, ma soprattutto il petto.

Mi sosteneva per recuperare le materie e gli argomenti da studiare che non avevo potuto apprendere mentre ero ricoverata in ospedale, durante la riabilitazione, si accorse delle mie difficoltà evidenti nei numeri e nei calcoli, fece di tutto per migliorarle, per impedirmi di ritrovarmi troppo indietro rispetto agli altri bambini quando avrei iniziato a frequentare la scuola pubblica. Inventava canzoni, balletti e filastrocche sul momento per rendermi più facili quei concetti così difficili nella mia mente, così bizzarre e assurde che, senza volerlo, mi ritrovavo a ridere, per poi accorgermi poco dopo che adesso ricordavo tutto, proprio grazie a quelle risate.

E quando ridevo, lui lo faceva con me, in quel suo modo così incredibile per me, gentile e sincero, che mi meravigliavo sempre, arrossivo con furia e lui riprendeva a chiamarmi Ciliegina.

Anche se non riuscivo ancora a rispondergli a voce e a guardarlo negli occhi la maggior parte del tempo, non demordeva mai, non si arrendeva un istante. Mi spronava, continuava a farmi domande anche sciocche, solo per pizzicare quell'innata voglia a me sconosciuta di rispondergli, pur con un cenno del capo.

La mattina si alzava presto, prestissimo, nel tentativo di prepararmi una colazione coi controfiocchi. Tentava di tutto pur di strapparmi un sorriso, di vedere i miei occhi riempirsi di meraviglia ogni giorno: pancake, waffle, crepes, ciambelle, macedonia con panna e tanto altro ancora.

Ma era totalmente incapace, una catastrofe naturale della cucina. Forse il solo ambito in cui mai se la sarebbe cavata, lui che in tutto il resto eccelleva egregiamente.

Fu proprio una di quelle mattine, venti giorni più tardi dal mio arrivo in quella villa, che per la prima volta trovai il coraggio io di prendere l'iniziativa.

Mi svegliai presto al grido di un'imprecazione che proveniva dal piano di sotto, e quando uscii dalla mia stanza e scesi le scale per arrivare in cucina, vidi papà davanti al ripiano in granito dei fornelli, che si scuoteva l'indice della mano destra con forza. Si era tagliato nel tentativo di fare a cubetti una tavoletta di cioccolato fondente.

Si accorse di me l'attimo dopo, voltandosi e trovandomi attaccata alla porta schiusa, nascosta a metà dietro di essa.

Mi sorrise, quasi imbarazzato. «Ti ho svegliato, Ciliegina?» domandò. «Scusami, bambina, volevo preparati un po' di biscotti al cioccolato, ma temo davvero di dover rinunciare.»

Ignobili affettiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora