Cocido madrileño

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Imparai a controllare in gran parte la mia afefobia a quattordici anni, grazie ai vari esercizi suggeriti dalla mia psicologa e la pazienza di mio padre che mi aiutava a metterli in atto ogni giorno.

Il risultato che ottenni fu che, a pelle coperta, ero praticamente in grado di fare tutto, vivere quasi normalmente, come gli altri ragazzi della mia età. Non era piacevole, ma ci avevo preso l'abitudine, al punto che, ormai, neanche più andavo in panico dopo. Era solo un fastidio, come un sassolino nella scarpa che, sapendo di non potertelo togliere, anzi, di averne al contrario bisogno, finivi per accettare e permettevi di accompagnarti per il resto del tragitto.

Solo alcune cose non ero proprio in grado di tollerare anche da vestita del tutto: i gesti che comportavano inevitabilmente un contatto troppo esteso e profondo, che coinvolgeva in contemporanea più punti del corpo, come gli abbracci o le carezze continue protratte a lungo.

Ero riuscita persino a imparare a gestire i momenti di panico davanti a un contatto a pelle nuda. Li vivevo, sì, ma la mente più non si svuotava né finivo per delirare in assoluto. Riuscivo a mantenermi lucida per poter agire di conseguenza e calmarmi.

La sola eccezione erano, per ovvie ragioni, i gesti più intimi, come il sesso, che di sicuro mi avrebbero fatta ammattire all'istante.

Anche i baci mi erano del tutto proibiti, che fossero sulla guancia o sulle labbra; pur essendo una romanticona, una di quelle che si emozionava come una scolaretta a leggersi i romanzi in voga del momento, dove i due protagonisti facevano di tutto e di più al limite della legalità, una di quelle che su Wattpad lasciava tremila commenti emozionati già al primo bacio tra i due, ero ben conscia del fatto che mai avrei potuto sperimentare cose del genere per me.

Per quanto desiderassi a mia volta vivere storie d'amore simili, per quanto mi facessero impazzire, il corpo, al solo pensiero di entrare in un'intimità del genere con un altro essere umano, s'accartocciava subito come un foglio di carta in un pugno, brividi continui andavano a scuoterlo, sudore copioso lo ammantava.

Mai l'avrebbe tollerato.

E io avevo accettato subito ciò.

A discapito della mia fantasia da adolescente in preda agli ormoni, sapevo di non essere né in diritto né nella posizione di poter avere una relazione o anche solo attività sessuali.

Era contro natura ai miei occhi.

Sognavo quelle storie d'amore per ore e ore, tanto mi travolgevano, ma non dimenticavo mai di tenere i piedi saldi a terra, di non illudermi troppo con la mia immaginazione.

Mi accontentavo dell'idea di innamorarmi, un giorno, a distanza, in senso unilaterale e mai ricambiata. La sola forma di romanticismo che volevo e potevo concedermi.

Ero ben consapevole che nel mio futuro non mi sarei mai sposata e mai avrei avuto figli, che sarei rimasta single a vita, e forse proprio per questo avevo sviluppato una passione così profonda per i cattivi ragazzi, i dark romance e le boy band dai membri tatuati dalla testa ai piedi e pieni di piercing, noti più per i loro aspetti trasgressivi che per le doti canore.

Compensavo la realtà dei fatti con l'immaginazione, un modo per non addolorarmi troppo per la consapevolezza di come sarebbe stata la mia vita in futuro.

Le sole persone che riuscii a toccare a pelle nuda, con cui fui capace di avere contatti fisici estesi come gli abbracci, furono due.

Mio padre e Betsy.

Papà fu il primo con cui ottenni quel grande traguardo, a quindici anni, durante le vacanze estive.

Avevo notato che il mio corpo, pian piano, aveva iniziato sempre più a rilassarsi quand'era vicino al suo, al modo in cui più non si tendeva anche solo di poco nell'avvertirlo, al modo in cui anche a toccarlo coi guanti non provavo quel fastidio ormai abitudinario, quel sassolino nella scarpa.

Ignobili affettiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora