Verde

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Quella notte, sognai il giorno in cui il verde divenne il mio colore preferito.

Non per merito di Betsy, stavolta, e nemmeno di papà.

Per merito di Joanne.

Avevo dodici anni ed ero in cucina di casa George insieme a lei, per portare la merenda a Betsy, intenta a fare i compiti di matematica su mio ordine. Joanne stava tagliando le fette del plumcake allo yogurt che avevo cucinato quel mattino stesso così da portarlo a loro.

Era una donna bellissima, Joanne, identica alla mia amica: minuta e magra, col volto quasi un pasticcino, il nasino all'insù. Non aveva i boccoli rossi della figlia, bensì un caschetto castano, ma gli occhi erano identici e così il sorriso.

Spesso, quando andavo a trovare Betsy, mi ritrovavo molto a invidiarla, perché mai prima di Joanne avevo pensato che una mamma potesse essere così: gentile e buona, delicata, capace sì di arrabbiarsi costantemente con la figlia, ma di amarla proprio in quel modo.

Ed era stata anche una dei pochi adulti che mai aveva storto il naso o mi aveva guardata con quegli occhi stupefatti, una volta scoperta la mia afefobia.

«Agatha» mi disse, mentre sistemava le fette di plumcake su un piattino, sul tavolo della loro cucina, «un giorno io e Lucas faremo una statua in tuo onore non solo per riuscire a far studiare quell'incurabile idiota di mia figlia, ma anche per viziarci sempre con tutti i tuoi dolci.»

Le mie guance si fecero rosse come al solito, e Joanne sorrise, ben conscia di quella mia particolarità. «Sei davvero un piccolo pomodorino, sei adorabile.»

«Non sono... così carina» balbettai con un filo di voce, stringendomi nelle spalle, ancor più scarlatta in faccia, Joanne ridacchiò di nuovo.

«Oh sì che lo sei, tesoro» mi smentì subito. «E sai qual è la cosa più carina di te?»

La guardai confusa, il suo sorriso si allargò. «Quei begli occhietti verdi che hai» mi disse, facendomi l'occhiolino, ed io sussultai, stringendo in modo spasmodico le mani in due pugni. «A te non piace il colore dei tuoi occhi, Agatha?»

Chinai il capo per terra, per impedire alla mia paura di venir smascherata da lei, così attenta e accorta in ogni situazione.

I miei occhi appartenevano a una sola persona, e non ero io.

Appartenevano a uno sguardo che si trovava sempre nel riflesso di quello specchio, alle mie spalle, lì per assicurarsi la mia più totale e assoluta confessione dei peccati.

«Non... Non tanto» bisbigliai con un filo di voce. «Penso... che i tuoi... sono molto più belli... Joanne.»

La udii ridacchiare, e quando risollevai appena il capo, mi accorsi che si era inginocchiata davanti a me, così che le nostre teste fossero alla stessa altezza. Il suo sorriso gentile, quella curva morbida delle labbra che prima di papà mai avevo conosciuto per davvero, alleggerì il peso improvviso che aveva gravato sul cuore.

«Non paragonarti mai agli altri, tesoro» mi disse con voce delicata, dolce, quel genere di voce che vorresti ascoltare prima di addormentarti, sdraiata sotto le coperte. «Non pensare mai a chi è più bello di te o a chi è più bravo di te, guardati sempre per ciò che sei.»

Allora io mi dondolai sui talloni, indecisa, torturandomi le dita tra di loro, quel giorno coperte da un paio di guanti azzurri. «Ma se lo faccio...» squittii indecisa, «poi divento... viziata.»

«Assolutamente no» mi garantì Joanne. «Diventi solo una bambina dolcissima che si vuole bene, ed è questo ciò che più importa. Anche il tuo papà te lo dice, no?»

Ignobili affettiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora