Gemelli

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Mi svegliai alle sette e mezza di sera più stanca di prima, con un mal di testa acuto a dilaniarmi i pensieri.

Mi misi a sedere sul materasso privo di lenzuola, con solo il cuscino a decorarlo, e guardai fuori dalla finestra accanto al letto.

Era giù buio, il cielo s'era dipinto d'inchiostro, e io avevo di nuovo fame, nonostante i tre pacchetti maxi di patatine alla paprika e le due buste di marshmallow che mi ero divorata prima di andare a dormire.

E non solo avevo fame, ma proprio una voglia innata e irresistibile di un cesto di cosce di pollo fritte di quella friggitoria casareccia scoperta pochi giorni dopo essermi trasferita lì.

Un tempo, davanti a questi impulsi, ero capace di resistervi con una volontà ferrea e inamovibile, non li consideravo neanche, mi sfioravano a stento la mente, tanta poca importanza avevano per me.

Adesso, invece, guidavano ogni mia mossa e respiro, conducevano la mia vita e muovevano il corpo togliendo qualsivoglia potere fosse rimasto alla razionalità.

Mi arrendevo ad essi come la spiaggia del mare si arrendeva alle onde che andavano a divorarla e bagnarla, portar via i suoi granelli di sabbia per farli sprofondare negli abissi dell'oceano.

Mi mossi veloce, presi tutto il necessario: infilai i guanti, mi misi la mascherina chirurgica, sollevai il cappuccio della felpa nascondendovi dentro la chioma esplosiva dei miei ricci e indossai le scarpe da ginnastica.

Uscii di casa in fretta, attenta a tenere sempre il capo basso mentre percorrevo il corridoio del terzo piano del condominio, dove si trovava il mio monolocale.

A onor del vero, non m'importava granché di esser riconosciuta dagli estranei, ma avevo imparato nel corso degli ultimi anni che era più facile muoversi con quel camuffamento. In una metropoli grande come quella, poi, una persona che si vestiva come me, con mascherina e cappuccio alzato, non attirava poi così tanto l'attenzione. C'erano personaggi ben più particolari.

La friggitoria era a dieci minuti a piedi dal mio condominio. Avrei potuto usare la macchina per raggiungerla, dato che era un negozietto così piccolo da non disporre di consegne a domicilio, ma non mi andava. Preferivo camminare, quando potevo, soprattutto in un quartiere povero e distrutto come quello.

Non l'avevo ammesso a me stessa ad alta voce, ma sapevo perché.

Una parte di me, sicuramente, sperava di venir scoperta e per questo insultata e pestata per l'ennesima volta.

Ridicolo, davvero ridicolo: mi camuffavo per non esser beccata, ma al contempo non potevo che sperare che ciò accadesse.

Ormai ai miei occhi ero diventata un mistero grande quanto mio padre.

Una risata amara mi attraversò di nuovo, mentre percorrevo il marciapiede devastato dalle buche, le mani nella tasca gigante della felpa grigia, la borsa a tracolla a sbattermi contro la coscia ad ogni passo, con le macchine che mi sfrecciavano sulla strada alla mia destra e l'aria già fredda dell'autunno che riusciva a ghiacciarmi anche attraverso la mascherina.

Le case e i palazzi di quella zona erano davvero messi malissimo, ma non era una novità, considerata la povertà del quartiere. Le loro vernici erano sciolte, l'intonaco sbrindellato, i tetti rovinati dalle antenne abusive, i balconi con le ringhiere divorate dalla ruggine, i cortili dalle erbacce incolte e ingiallite perché mai nessuno si era preso cura di loro.

Mi sentivo come quel posto, adesso, la sua rappresentazione umana in tutto e per tutto.

Per questo l'avevo scelto.

Con gli occhi fissi ai miei piedi, proseguii, tutti i suoni si scioglievano nelle orecchie perdendo la loro individualità, l'unica cosa che sentivo era il mal di testa che ancora adesso non aveva smesso di pulsarmi nelle cervella.

Ignobili affettiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora