Io non mi innamoravo mai davvero.
Anche nelle occasioni in cui in testa mi dicevo "lo amo follemente" nei confronti di una delle mie cotte, sapevo benissimo che non era così.
Perché per innamorarsi di qualcuno bisognava conoscerlo sul serio, parlare con lui, vederlo da una prospettiva diversa da quella unicamente visiva.
Un amore che si basava solo e soltanto sulle apparenze forse non era falso e sbagliato, no, ma di certo non poteva essere considerato assoluto.
Così era stato per tutte le mie cotte, prima che si scoprisse la verità su mio padre.
Io mi ero sempre limitata a guardarle da lontano, amoreggiare per loro proprio come una fan con il suo cantante preferito, non importava se erano miei coetanei, compagni di scuola o di classe. Di tanto in tanto sì, mi capitava di parlare con loro, ma erano briciole di parole, conversazioni che non potevano essere definite tali, puri e semplici scambi di voci che duravano per poco, pochissimo.
C'era sempre una distanza incolmabile che mi impediva ogni volta di annegare davvero in un sentimento viscerale e profondo, una distanza che io stessa mi guardavo bene dal ridurre, perché pienamente conscia che, se anche l'avessi fatto, non avrebbe prodotto alcun risultato se non il mio cuore in frantumi.
Le rare volte in cui finivo per chiacchierare con le mie cotte, mi limitavo sempre ad assaporare quel momento, a dirmi di esser grata anche per quei piccoli istanti, perché erano il massimo che avrei potuto ricevere nel corso degli anni.
Come un'assettata d'amore, mi accontentavo delle poche gocce di sentimento che mi erano concesse.
Perché sapevo di non potermelo permettere, come sapevo che, anche se me lo fossi permessa, ciò non avrebbe mai portato a nulla di buono.
Tremavo al pensiero di come mi sarei potuta trasformare, se mi fossi arresa ancora a un altro desiderio, di come avrei potuto esserle sempre più affine e simile, sempre più vicina.
Talmente identica che avrei di nuovo corso il rischio di vedere solo e soltanto lei nello specchio.
A lei piacevano molto i fiori.
Papà, prima di tornarsene nell'Arkansas, quando ci veniva a trovare, ci lasciava sempre un bouquet incredibile, di quelli che si vedono solo nei film più romantici o assurdi. Lei, allora, metteva quel bouquet nel vaso più bello che disponesse in casa, al centro del tavolino del soggiorno, e passava ore e ore a rimirarlo, canticchiando sottovoce canzoni dolci che si inventava sul momento.
Si accorgeva anche del più minuscolo, infinitesimale, invisibile cambiamento di quel bouquet: quanti petali i fiori perdevano, quanto velocemente stesse svanendo il loro profumo, se uno di loro era troppo soffocato dagli altri, se aveva bisogno di più luce, se stava soffrendo per poca acqua. Quell'attenzione assurda, quasi ossessiva, che dedicava loro, la dedicava anche a me.
Notava tutto, qualunque cosa, non importava quanto tentassi di nascondergliela, anche il dettaglio più inutile e insensato subito veniva scoperchiato dai suoi occhi da rapace. Io provavo a mascherare e nascondere, provavo a seppellire, ma di risposta lei scorgeva quel piccolissimo puntino di dissesto tra la mia menzogna e la verità e subito lo scavava a fondo per poter ribaltare le zolle ed esumare ciò che avevo secretato.
Perché ai suoi occhi l'unica differenza tra quel bouquet e me, era che il bouquet, almeno una volta, l'aveva resa felice.
Il ricordo di quei giorni mi era sufficiente per indurmi a pensare che mai sarei diventata come lei, mai le sarei stata simile anche in quel modo.
Ma inesorabilmente mi ghiacciavo nella paura, consapevole di quanto le fossi affine, di quanto le nostre due anime fossero uguali come lo era il colore degli occhi, trapiantate da un dolore identico.

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Ignobili affetti
ChickLitAgatha e Lawrence sono figlia e padre e il loro era un amore talmente profondo da non lasciarsi fermare nemmeno dall'ostacolo che li separava: i loro rispettivi segreti. Insieme, infatti, avevano riscoperto l'incanto e la meraviglia dell'affetto pi...