Kek lapis

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Minnie aveva detto, per telefono, che sarebbe arrivata in otto minuti.

Ce ne impiegò sei.

Quando Dante andò ad aprirle la porta, la udii dirgli, con quella sua voce femminile che tanto stonava col suo aspetto: «Che t'ho impedito de sfracassarti di nuovo le palle? Per questo me stai a guarda' così?»

«No» rispose lui, il tono così freddo che quasi me ne spaventai, «pensavo solo che sei così stronza da esserlo anche quando non vuoi.»

«Non farmi arrossire, a differenza tua io c'ho ancora una dignità.»

L'attimo dopo, la sua figura minuta sbucò dal corpo alto e gigante di Dante. Come al solito, era accigliata come non mai, come se l'avessero fatta incazzare a morte, e sempre come al solito era vestita di nero dalla testa ai piedi, gotica al massimo.

Indossava una minigonna a pieghe e vita alta, in stile retrò, su ciascuna delle frange una piccola croce bianca, la cintura da cui si intrecciavano centinaia di catene argentate. Sotto, dei collant che fino a poco più in su delle ginocchia erano spessi e neri, per poi trasformarsi a rete, nascosti in parte dagli stivali dal tacco e la zeppa altissimi, il cui collo arrivava fino a metà polpaccio, chiusi con centinaia di fibbie altrettanto nere.

Un top a felpa semplice che le arrivava sopra l'ombelico con sopra la stampa di due occhi di gatto e una felpa pesante aperta, dalle maniche così lunghe da nasconderle quasi tutte le mani.

I capelli grigi erano di nuovo stati lasciati liberi fino al petto, lunghi e ordinati, curati come non mai, e portava una collana a girocollo totalmente in pizzo, dal cui centro pendeva un ciondolo ovale, puntinato di onice.

Non appena mi scorse, aggirò Dante e mi raggiunse a passo svelto, con il tacco e la zeppa alta dei suoi stivali a calpestare il pavimento con forza, rintoccando come sassi contro il marmo. Si fermò proprio davanti a me, accanto alla penisola della cucina, i suoi occhi si fissarono sui due contenitori di lokum che erano stati preparati per lei e il suo ragazzo.

Aggrottò con più furia le sopracciglia.

«So' lokum, quelli che vedo, riccioli corvini?» mi domandò.

«Oh... mmm... sì.»

Le sopracciglia si aggrottarono ancora di più, una ruga a V le si formò proprio tra di esse.

«Riccioli corvini» mi chiamò d'improvviso, mentre in fretta afferrava i contenitori e se li metteva dentro lo zaino borchiato e nero che portava in spalla. «Te piace il cinese da magnà?»

Quella domanda mi lasciò confusa. «Mmm... sì?»

«Bene. Oggi ceni da me.»

Sbarrai gli occhi, stupefatta, Dante, ancora sulla soglia d'ingresso, corrugò la fronte. Non potevo biasimarlo, ero scioccata anche io da quell'ordine.

Minnie proseguì: «Il coglione numero due, secondo solo al coglione numero uno che me sta a fulminà dalla porta, è a 'na partita de calcio coi suoi amici altrettanto coglioni, così me so data al take away e ho comprato tutti i piatti cinesi de 'sto mondo. Ti sorprenderà, visto che so' così magra, ma magno come un bufalo, io, più di coglione numero uno e coglione numero due messi assieme. C'ho avuto culo de ave' un metabolismo stratosferico.»

«Oh» mormorai. «Ti ringrazio, ma-»

Dallo zaino ancora aperto Minnie tirò fuori...

Pinze da dentista.

Quelle con cui si estraevano i denti, tipiche dei film più traumatici dell'infanzia.

«Riccioli corvini, 'na cosa devi capì de me» dichiarò, fissandomi negli occhi furibonda, o così almeno appariva, «io mantengo sempre le mie minacce.»

Ignobili affettiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora