Tornata a casa, quella sera, posai sul comodino accanto al letto i due regali che avevo ottenuto d'improvviso quel giorno, senza un vero motivo alle spalle.
Il modellino tascabile di Herbie, ancora dentro il cofanetto, col coperchio sollevato perché potessi guardarlo prima di addormentarmi.
E il cappello nero, con la stampa di un gattino bianco sopra la visiera larga, aperto dietro di modo da far passare la mia nuvola di ricci, datomi da Minnie prima che uscissi di casa.
«Se te nascondi sempre i capelli in quel modo, sotto il cappuccio, finirai per morì soffocata» mi aveva detto mentre me lo porgeva, «non te credere de essere l'unica riccia, in 'sto quartiere di merda, se farai vede' i tuoi capelli, la gente non te identificherà subito, specie se continui a indossà la mascherina. Prova a nasconderli a vista.»
«Nasconderli a vista?» avevo domandato io.
Lei aveva annuito. «Tutte le foto che ce so' di te sono praticamente uguali: c'hai sempre i capelli sciolti e sempre della stessa lunghezza. Se te fai un'acconciatura diversa, la gente non farà subito il collegamento, soprattutto i dementi. Ora te mostro come usa' sto cappello così da sistemarti i capelli, cerca de renderli più pomposi possibili, 'na vera palla gigante de ricci, così chi te vede non te identifica subito co' le foto tue che ce stanno su internet.»
E così mi aveva spiegato in che modo trasformare la mia chioma da sempre indomita in una vera e propria palla gigante di ricci che sbucava dall'uscita aperta del retro del cappellino e mi ricascava sulle spalle.
«Truccate anche un po' gli occhi» mi aveva suggerito Minnie, analizzandomi, «ce so' un sacco de modi con cui se può camuffare un po' la forma degli occhi, anche se la gente, demente com'è, manco se ricorderà de che colore so' i tuoi.»
«Non credo... sia così semplice...» avevo detto un po' divertita.
«Tu sottovaluti la demenza delle persone, riccioli corvini» aveva ribattuto lei, «pensa che quando me ne vado in giro struccata io, nessuno me riconosce, tra un po' manco quel coglione che me scopo ne sarebbe capace.»
Non avevo avuto cuore di farle notare che il suo stile dark era proprio la sua firma, proprio per questo era difficile identificarla quando non lo indossava, ma avevo accettato di farmi dare qualche consiglio da lei su come truccarmi gli occhi in modo da farli apparire anche solo di poco di una forma diversa.
Era così bizzarro, tutto ciò, quell'aiuto che stavo ricevendo da una totale sconosciuta, proprio non sapevo spiegarmi come fosse possibile.
Fissai il cappellino che mi aveva dato, lo presi, seduta sul bordo del letto, e me lo rigirai tra le dita. Era di prima qualità e sicuramente appena comprato, non aveva alcuna traccia di usura in sé.
L'aveva preso apposta per me, e di sicuro non aveva avuto il tempo di comprarlo quando Dante mi aveva incastrata scrivendole dei lokum che avevo fatto per lei e Max. L'aveva acquistato ben prima, forse addirittura subito dopo il nostro primo incontro.
Non riuscivo proprio a capire perché.
Compassione? Pietà? Senso di solidarietà?
Per me?
Proprio per me?
La figlia di Lawrence Reid?
Faticavo a concepirlo.
I miei ultimi quattro anni di vita erano stati caratterizzati dalla solitudine più totale e la condanna assoluta da parte del mondo. La sola compagnia che avevo avuto era stata mio padre, quando lo andavo a trovare in carcere, e proprio perché lui, non era mai stata una compagnia chissà quanto piacevole, visto che ad ogni incontro deperivo sotto la pressione delle mille domande che non osavo fargli.
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Ignobili affetti
ChickLitAgatha e Lawrence sono figlia e padre e il loro era un amore talmente profondo da non lasciarsi fermare nemmeno dal grande ostacolo che li separava: i loro rispettivi segreti. Insieme, infatti, avevano riscoperto l'incanto e la meraviglia dell'affet...