La fine, però, arrivò troppo presto, proprio come accadeva sempre per il metodo Betsy.
Perché cedetti ancora e ancora a Dante, alle sue domande e provocazioni, i nostri battibecchi, cedetti al fascino di una cena del genere in cui potei mangiare con gusto, sentire il sapore del cibo che portavo in bocca, sorridere per esser riuscita finalmente a godermi un pasto vero, non più dovuto ai fast food o le varie spese a domicilio che mi facevo.
Sorridevo, allora, un peccato primitivo che non riuscivo a strapparmi dall'anima, e quando sorridevo, sorrideva anche lui, e nel vedergli quella curva sulle labbra, cedevo. Era come se lui ogni volta riuscisse a vedere le fibre che andavano a compormi le emozioni, la loro intrecciatura ostica e illogica, e sempre riuscisse a scovare i fili tirati, quelli che erano in parte sfuggiti alla trappola, così da poterli afferrare e tirare ancora di più, smagliandomi, scucendo le parti sordide di me per lasciar ricamati solo i miei desideri.
Il presto giunse a poca distanza dallo scoccare della mezzanotte, quando, mentre guardavamo la televisione, a dolce finito, con il presentatore che faceva il countdown degli ultimi tre minuti, d'improvviso lui si alzò dal suo posto e mi si mise davanti, coprendomi la visione dello schermo col suo corpo alto e statuario.
Persi tutti i miei battiti, nel momento in cui sollevò la mano sinistra, il palmo rivolto al soffitto, proprio sotto i miei occhi, e con voce sicura domandò: «Ti va di ballare?»
Forse i miei polmoni erano diventati legno e l'aria fuoco invisibile, perché quando la respirai, sentii l'intero petto bruciare fino a non lasciar nemmeno le ceneri della cassa toracica. Stavamo di nuovo parlando tra di noi senza necessità di parola, con quella lingua che avevamo iniziato a creare per bisogno, per raccontare il non detto, trovare voce ad emozioni troppo intricate e inesprimibili col verbo.
Fissai la sua mano, strinsi le mie nude sulle cosce, il fuoco che si faceva imponente e andava a dilagare anche ai miei altri anfratti, ad appiccare lo stomaco, le vene, i capillari, la retina degli occhi. «Io...» Serrai le cosce tra di loro. «Non... Non c'è la musica adatta» risposi a casaccio.
Di risposta, la sua altra mano tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il telefono che, subito dopo, ripose all'angolo del tavolo. Frank Sinatra partì pochi attimi dopo, con gli inizi di una delle sue cover più belle, quella che canticchiavo con maggior frequenza tra me e me, negli ultimi tempi: The way you look tonight.
«I-Io...»
«Hai cinque secondi per accettare.»
Sobbalzai, la mia testa scattò in alto per guardarlo e di rimando lui... sorrise! «Non ancora!» mi lamentai, il suo ghigno si fece spietato.
«Dopodiché butto tutti gli avanzi della cena nella pattumiera» proseguì, fingendo di non avermi mai sentita.
Spalancai la bocca, oltraggiata. «Non puoi... fare così ogni volta!»
«Cinque.»
«Andiamo!» obiettai. «Non vale così! Non è questo il modo in cui si chiede–»
«Quattro.»
La stizza prese posto dell'incendio, di quest'ultimo ne rimasero le tracce in viso, a pizzicarlo con livore fino a farmi sentire la pelle una spessa maschera di lana infeltrita. Strinsi la sua mano con la mia, l'irritazione era così tanta che neanche badai troppo a quel contatto. Mi sollevai dalla sedia per tentare immediatamente col piede destro di calpestare il suo sinistro, ma Dante evitò all'istante il mio colpo tra gli sghignazzi.
«Non è divertente!» esclamai nell'irritazione, cercando di calpestarlo ancora e ancora, con lui che si salvava ogni volta, mentre indietreggiavamo dal tavolo per raggiungere lo spazio vuoto tra la zona da pranzo e quella del salotto, nello spazio piccolo a delimitare il tavolo e il divano. «Sei... uno stronzo!»
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Ignobili affetti
ChickLitAgatha e Lawrence sono figlia e padre e il loro era un amore talmente profondo da non lasciarsi fermare nemmeno dal grande ostacolo che li separava: i loro rispettivi segreti. Insieme, infatti, avevano riscoperto l'incanto e la meraviglia dell'affet...