Casa mia

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Non ero per niente pronta.

Affatto.

Nonostante mi fossi preparata mentalmente per tutto quel tempo, nonostante mi fossi detta più e più volte come comportarmi senza andare nel panico, davvero mi sentivo del tutto impreparata.

Dal giorno in cui avevano arrestato mio padre... non ero più andata a casa di qualcun altro, men che meno per preparargli il pranzo.

In testa non potevo fare a meno che immaginare tutti gli scenari più tragici in cui finivo immancabilmente per combinare un disastro, commettere un errore imperdonabile e farmi odiare.

Sapevo solo di dover fare una cosa: appena avrei servito il pranzo ai due piccoli criminali, avrei subito dovuto levare le tende.

Ero così nervosa che a stento udivo il cuore: pulsava in maniera talmente tanto violenta che ogni battito esplodeva nel silenzio.

Osservai la porta d'ingresso del palazzo in cui abitavano i gemelli pestiferi e l'uomo che mi avrebbe sicuramente voluto cacciar di casa a calci e ricontrollai l'orario sul telefono, in piedi davanti ad essa, con le buste della spesa ancora tra le mani.

Erano le sette e cinquantuno del mattino.

Ero arrivata troppo presto, avevamo concordato che sarei dovuta giungere lì per le otto, ero nove minuti in anticipo.

E se Dante avesse pensato che volevo a tutti i costi comprarmeli ed ero arrivata prima proprio per fare bella figura?

E se avesse pensato che ero una maniaca precisina?

Il nervosismo portava ogni singolo osso a tremare tra muscoli, carne e nervi, con così tanto panico che una patina di sudore già aveva iniziato a rivestirmi la pelle.

Forse era meglio aspettare.

Tornare alla macchina, parcheggiata a pochi isolati da lì, far scorrere almeno una decina di minuti, e poi ripresentarmi davanti a quel portone.

Potevo citofonargli per le otto e cinque, sì, sarebbe stato meglio.

Serrai la mascella, inspirai con furia dalla bocca, attraverso la mascherina, feci per voltarmi, ma proprio in quell'attimo il portone di legno si spalancò.

Una vampata di panico mi assalì non appena Dante sbucò dall'uscio. Quel giorno era vestito in maniera più semplice del solito: un paio di jeans dalle tasche laterali grandissime e un maglione grigio che, nonostante lo spessore del tessuto, aderiva fin troppo al suo torace e le sue braccia, lasciando ben intendere i muscoli che si nascondevano sotto.

I capelli castani scuri erano un po' arruffati sulla fronte e addosso aveva, ovviamente, l'ormai proverbiale espressione di diffidenza con cui mi scrutava dal nostro primo incontro.

«Che diavolo stai facendo ferma qua?» mi domandò.

Sussultai, grata del fatto che la mascherina e il cappuccio alzato della felpa in qualche modo potessero un po' celare il mio rossore. «Ecco... è... è ancora un po' presto.»

Le sue sopracciglia si aggrottarono, mi umettai le labbra, mentre lui faceva ricadere gli occhi sulle gigantesche buste della spesa e che reggevo tra le mani.

«Ohi» mi chiamò all'improvviso, la voce profonda.

Sobbalzai.

«C-Cosa c'è?»

«Sbaglio o t'ho dato il mio numero di telefono?»

Mi accigliai, perplessa. «Mmm... sì?»

«Quindi perché non m'hai avvertito che eri così carica de roba?»

Ignobili affettiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora