Mi svegliai avviluppata da un calore che mai avevo conosciuto, con i pensieri che si erano sciolti in nebbia e a restar intatto solo un piacevole dolore alle cosce.
Risollevai le palpebre e mi scoprii su un letto non mio, tra braccia forti e sicure a cullarmi, seppellita fino al collo da un piumone pesante capace di isolarmi dal freddo del primo mattino.
Sbattei le palpebre, mi mossi nel silenzio, scuotendo di poco i piedi sotto le lenzuola; dopo interminabili minuti di confusione, riuscii a riottenere una vista che non fosse più sfocata dal sonno e davanti a me distinsi chiaramente quello che era il petto nudo di un uomo.
I tatuaggi neri che lo ricoprivano erano così tanti e intricati tra loro da rendermi impossibile distinguere il momento in cui iniziava uno e finiva l'altro. Il volto di una tigre sul pettorale destro e sul sinistro quella che sembrava la mappa di un oceano, con isole e montagne isolate a soprassedervi, un paio d'ali minuziosamente disegnate in ciascuna piuma a dividere la parte superiore del torace da quella inferiore, la loro curva alare, stretta ma in apparenza infinta, seguiva armoniosamente la curva di entrambi i pettorali sotto cui si trovava. Intravedi una fenice dalla coda magnifica e folta, a sollevarsi dal basso ventre con il corpo incurvato ad arco per puntare il becco verso l'ombelico, muovendosi tra gli addominali come se fosse viva.
Ciò che però scuoteva dentro, di quel complesso meccanismo di tecnica e arte, era il modo in cui ogni frammento di quel quadro su carne convergeva proprio al centro del torace, a metà strada tra pettorali e ombelico, là dove si trovava il tatuaggio di una ruota della fortuna. Una di quelle che si vedevano sempre nei tarocchi, dai simboli a me ignoti. Era da lei che si dispiegavano le due ali e sempre a lei s'indirizzavano i restanti disegni. Era il vero e unico fulcro di quell'arazzo di carne, il centro da cui tutto si generava e a cui tutto ritornava, il vortice di un oceano d'arte.
Le dita dei miei piedi si arricciarono, il calore che percepivo addosso, così pungente da arrivare sotto della pelle, proveniva non dal piumone che ci stava coprendo, ma proprio da lui, da quell'uomo a cui ero vincolata, che mi stava stringendo a sé con entrambe le braccia.
Schiusi le labbra e d'un tratto la memoria delle ore precedenti mi cadde in testa con la ferocia di una pugnalata. L'aria scomparì dai polmoni, furono i ricordi della notte passata a respirare per me, tingendomi il viso con il mio tipico rossore, mentre rielaboravo la notte vissuta.
Mio Dio.
Ebbi l'improvvisa voglia di fuggire, scappare il più lontano possibile, ma la testa mi girava o forse era la stanza stessa a girare. Risollevai di poco il capo, incrociai il viso di Dante: era assopito, gli occhi chiusi, le lunghe ciglia folte, come pizzo nero cucito sull'orlo delle palpebre, il ciuffo di capelli spettinati a sfiorargli appena la fronte.
Cosa dovevo fare? Come dovevo comportarmi? La follia stava iniziando a farsi strada, intransigente, nella testa. Milioni di opzioni diverse si affacciarono alla mente, ma nessuna mi parve adatta a quella situazione. Decisi allora di guardarmi attorno, muovendo di poco il capo, per studiare la stanza in cui mi trovavo.
Era l'unica stanza che fino a quel momento non avevo visto ed era molto diversa da come l'avevo immaginata. Piccola e minimalista, dalle pareti grigio cadetto, quella che avevo davanti era occupata interamente da una lunga scrivania in legno sobbarcata da pile e pile di fogli, torri di carta e inchiostro che come piante rampicanti si avvinghiavano anche al muro fino a sembrare una sua fodera: disegni fatti a mano, talmente precisi e curati che persino da dove mi trovavo, ben distante da essi, distinsi subito l'impegno ossessivo per il dettaglio più minuscolo con cui erano stati creati.
La camera presentava una sola finestra, ampia e spaziosa, dietro Dante. Una cortina bianca e trasparente la ricopriva, soffocando le primi luci dell'alba, la rifrazione del sole sul suo tessuto la levigava magistralmente, appariva così agli occhi non come una semplice tenda, ma un velo da sposa filato con l'acqua.
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Ignobili affetti
ChickLitAgatha e Lawrence sono figlia e padre e il loro era un amore talmente profondo da non lasciarsi fermare nemmeno dal grande ostacolo che li separava: i loro rispettivi segreti. Insieme, infatti, avevano riscoperto l'incanto e la meraviglia dell'affet...