Capitolo 0.1 - L'inizio del terrore (R)

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Kephas.

Nel buio apparve una luce, un cerchio luminoso grande quanto la mia testa. Tentai di allargarlo con le mani e questo, senza insistere più di tanto, si estese a dismisura, tanto da potermici tuffare dentro con una capriola. Ora il mondo era disegnato a colori. Volsi lo sguardo dappertutto, tirandomi in piedi: mi trovavo nella mia dimora. Mi avvicinai a una finestra, la spalancai e respirai a pieni polmoni.

Fuori vi era un viale pieno di alberi che, dopo un lungo periodo di caldo, si stava preparando al riposo. Aveva passato tutta la primavera e l'estate a farsi bello e adornarsi di fiori, e ora si stava spogliando di tutto, proprio come facciamo noi quando ci prepariamo per andare a letto la sera. Il vento scuoteva lievemente i rami nodosi di un castagno: le foglie del vecchio albero si abbandonavano languide e rassegnate al loro triste destino; le ultime rondini se ne andavano in fretta solcando il cielo ancora limpido. Le rose avvizzite, i pampini del pergolato del vicino ingialliti. Il dolce profumo del mosto aleggiava per le vie della città.

Ora però era inverno, il castagno era senza foglie, e si vedeva con chiarezza il disegno dei rami contorti e nodosi. Le cornacchie e i corvi vi si posavano a turno e parlavano dei tempi difficili che stavano per cominciare, e delle difficoltà invernali per trovare il cibo. I vetri delle finestre erano incrostati di gelo e brillavano come polvere di stelle.

La radio si accese sul mio comodino e prese a parlare: "Cari ascoltatori, oggi è il 7 gennaio 2023. Le feste sono ufficialmente finite, vi auguriamo quindi un buon rientro nelle vostre vite quotidiane. Passiamo ora alle notizie di cronaca..."

Mi avvicinai al comodino e spensi la radio. Un arcobaleno di plastica era appeso a un chiodo sul muro, sopra la testiera del letto matrimoniale, e una margherita di seta danzava sopra la sua superficie ondulata. La parete di cemento divenne come il cielo d'inverno e due occhi grigi sbucarono dal tetto iniziando a piangere, facendo gocciolare le lacrime sulle bianche lenzuola.

Sulle varie strisce dell'arcobaleno, adesso lungo quanto il letto e alto fino al tetto, apparve una scritta: "Nell'ultimo periodo trasmettevano, giorno dopo giorno, la notizia di un probabile attacco terroristico, mirato alla diffusione di un virus batteriologico. In breve tempo si era creato, in tutta la città, un clima di tensione piuttosto evidente, e sembrava che la gente si stesse preparando al peggio, acquistando riserve di cibo e creando rifugi sotterranei".

Gli occhi sul tetto smisero di piangere, ritirandosi dietro al cemento; il cielo sopra la testiera del letto divenne un po' rosato e un po' violaceo, e l'arcobaleno di plastica sparì. Chiusi le finestre e diedi un bacio a mia moglie Marie, ancora distesa sotto le coperte, con la margherita di seta tra i capelli... poi mi ritrovai in piedi nella cucina.

Presi uno yogurt e, con l'aiuto di un cucchiaino, macinai un po' di cereali al suo interno. Al primo boccone mi caddero entrambe le cose dalle mani, e il suono del metallo sul pavimento mi trasportò nel mio studio di registrazione, dove incoraggiavo giovani musicisti a rincorrere il proprio sogno.

Avevo sempre avuto una passione innata per la musica, ma dopo l'arrivo di mio figlio, non potendo continuare a vivere di sogni, avevo trasportato il mio piccolo studio casalingo in una vera e propria sede di registrazione, in modo da realizzare il sogno di qualcun altro.

Giunse il tramonto ed ero in mezzo a una strada; i clacson impazziti, i semafori lampeggianti, l'asfalto rigato da strisce bianche scolorite. Ero in pigiama. Era giunto il tramonto inseguendo le nubi; un velo purpureo era steso con le corde dei venti, che frustavano il volto di tre cavalieri sopra i loro cavalli, mentre migliaia di granelli di smog danzavano un'opaca aurora nel cielo. Nubi come fiamme, silenzio delle stelle, pioggia in stallo nelle nuvole più alte. Socchiusi gli occhi per osservare gli ultimi battiti di luce all'orizzonte, mentre il sole gettava secchi di sabbia purpurea. Una strana sensazione si fiondò nel petto e allora strinsi gli occhi, e quando li schiusi ero nel giardino di casa con mio figlio.

Una frase aleggiava nell'aria, sospesa sopra la mia testa, e le lettere si agitavano come mosse da un filo teso e appeso al cielo: "Avete mai sentito il suono di una foglia che cade dall'albero? Ettore adorava la magia delle piccole cose, come il fruscio del vento, lo sfarfallio delle foglie secche, il ticchettio della pioggerellina, e il canto degli uccellini".

Era di nuovo autunno ed ebbi la sensazione che quella era una giornata di festa: le campane delle chiese suonavano e l'aria era calda e mite. Mi sedetti per terra con mio figlio, sotto una quercia che allargava il suo fitto fogliame, fresco e verde. I raggi del sole giocavano tra i rami e le foglie, l'aria era piena del profumo delle erbe e dei cespugli, le farfalle variopinte giocavano a rincorrersi. Ettore si mise a costruire semplici strumenti fantasiosi: due sacchetti riempiti di foglie secche e due bottigliette di plastica vuote farcite di sassolini. Prese due bastoncini di legno e li usò come bacchette, sperimentando una miriade di suoni nuovi.

Sorrisi, con le gambe incrociate e i palmi delle mani sul mento, e di colpo fu notte. Sentivo freddo e tremavo sotto le coperte, con mia moglie Marie al mio fianco che mi dava le spalle. Una pioggerellina ticchettava sui vetri delle finestre della camera da letto, al primo piano della casa. Mi rannicchiai, stringendo le dita dei piedi infreddolite tra le mani. Qualcuno bussò alla porta, una, più volte, battendo forte sul legno.

Scesi dal letto; la finestra si spalancò da sola verso l'esterno e così mi sporsi in avanti. Un uomo, un barbone con un logoro cappotto scuro di panno e un berretto nero di lana continuava a battere i pugni contro la porta d'ingresso, ripetutamente. Gli urlai contro, informandolo che avrei chiamato la polizia, se non se ne fosse andato. Sembrava un ubriacone che non si rendesse nemmeno conto di quello che stava facendo, e così continuò imperterrito. Decisi dunque di risolvere la questione da uomo a uomo.

Afferrai il tubo di ferro che tenevo nascosto sotto il letto e mi diressi verso l'ingresso della dimora, mentre mia moglie, seduta sul materasso, muoveva le labbra senza voce e mio figlio, in piedi sull'uscio della sua camera da letto, stringeva al petto un peluche fissandomi impaurito. Girai la manopola della porta e la tirai verso l'interno della casa.

Non ebbi nemmeno il tempo di aprire bocca che l'uomo si scagliò contro di me, con l'intenzione di mordermi il braccio. Dopo una breve colluttazione, dove con l'avambraccio destro premevo il suo collo e con la mano sinistra schiacciavo la sua mandibola, lo spinsi talmente forte da scaraventarlo per terra. Gli puntai il tubo contro, davanti al naso, urlandogli più volte di non muoversi. Mia moglie e mio figlio corsero verso la cucina, e così gli dissi di chiamare la polizia.

Nel frattempo l'uomo si lanciò di nuovo su di me, costringendomi a colpirlo con violenza nelle costole. Il tubo di ferro quasi si piegò. L'uomo cadde per terra agonizzante, con il volto schiacciato contro il pavimento. Mentre lentamente si contorceva dal dolore, mi avvicinai alla soglia della porta, attratto da uno scenario ambiguo e allarmante. Non potevo credere ai miei occhi.

La popolazione era stata catapultata dalla propria casa alle vie della città. Alcune persone strisciavano per terra insanguinate, altre strappavano a morsi la carne di uomini, donne e bambini, le restanti si uccidevano tra di loro trafiggendo il cuore o la testa dell'avversario. Le urla di mio figlio tuonarono alle mie spalle. Mi voltai, disorientato, confuso, sconcertato.

Ettore tremava come una foglia tra le braccia di mia moglie incinta. L'uomo era di nuovo in piedi con la bava alla bocca; le mani protese in avanti pronte a palpare la loro carne. Una vampata di calore mi attraversò dalla testa ai piedi e i miei occhi bruciarono di rabbia. Strinsi il tubo di ferro tra le mani e mi scagliai contro quell'uomo, colpendolo con un fendente alla testa, imprimendo una forza tale da spaccargli il cranio.

Marie emise un gemito acuto, Ettore pronunciò il nome della mamma, il corpo dell'uomo si distese per terra, portando con sé il tubo di ferro incastrato nella scatola cranica. Le pareti, adesso, erano imbrattate di sangue, così come i miei vestiti e quelli della mia famiglia.

Qualcuno mi scosse le braccia e sussurrò: "Kephas! Kephas! Svegliati... è soltanto un brutto incubo".

Quando aprii gli occhi, vidi il volto di Giacomo sopra il mio. Le mie mani stringevano forte un lenzuolo bianco di cotone. Mi voltai a destra, a sinistra, il mio sguardo turbinò nella stanza: mi trovavo a Palazzo Montecitorio.

"Devo parlare con Kariot. Sta succedendo di nuovo."

Giacomo fece un passo indietro, staccandosi dal mio letto. Lo sguardo severo e le labbra serrate.

Ricordi di un mondo passato (Cartaceo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora