Capitolo 0.2 - L'inizio del terrore (Parte Due) (R)

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Kephas.

Il gemito acuto di Marie risuonò da una parete all'altra della casa. Ettore tremava con il suo peluche stretto al petto, una volpe arancione, e pronunciava il nome della mamma battendo i denti. Le pareti erano imbrattate di sangue, così come i miei vestiti e quelli della mia famiglia. L'uomo giaceva per terra, con il tubo di ferro conficcato in mezzo al cranio. Il mio cuore tuonava come un tamburo nel petto, le mie tempie pulsavano fastidiosamente. Tremai come una foglia.

Cosa avevo fatto?

Volsi lo sguardo in basso, poi alle mie spalle, poi ancora sugli occhi di mio figlio, atterriti e pieni di lacrime. Mi avvicinai al suo corpicino, mi piegai sulle gambe e lo strinsi forte, con lo sguardo perso nel vuoto. Lo presi in braccio e mi rialzai da terra.

"Pietro!" bisbigliò mia moglie, una sola volta.

Il suo sguardo si spense sul mio, terrorizzato. Non un'altra parola fuoriuscì dalle sue labbra tremolanti. Con una mano strinsi il suo braccio, poi accarezzai il suo viso e infine i suoi capelli.

"Fatti forza, Marie. Entreranno altre persone e noi non ci faremo trovare. Dobbiamo prendere la macchina, raggiungere un ospedale, una stazione di polizia o una base militare. E lo dobbiamo fare adesso." Le mie parole rimasero sospese in aria, in quella stanza cupa. Poi, sottovoce, quasi balbettando, continuai: "Fatti forza, Marie. Fuori... la città... non è più la stessa".

Il palmo della mano si sciolse dai suoi morbidi capelli, scese lungo il corpo e strinse le sue dita. Marie fece un cenno con la testa, rapido, con lo sguardo fisso sulla porta.

"Chiudi gli occhi, Ettore" sussurrai al suo orecchio. "E mantienili chiusi finché non te lo dico io."

Il mento di Ettore sbatté più volte sulla mia spalla, segno che stesse annuendo ripetutamente.

Un passo dopo l'altro mi diressi verso la porta d'ingresso da tempo spalancata, afferrai le chiavi della macchina e mi fermai poco prima di varcare l'uscio. Fuori la città sembrava un mostro crudele avvolto da una gelida oscurità. Il cielo era nero, e cessava d'essere un'assoluta assenza di luce quando i fulmini lo attraversavano per un istante. Pesanti scrosci di pioggia si abbattevano sui tetti delle auto, sulle tettoie di metallo, e sui marciapiedi calpestati da migliaia di scarpe. La mia macchina era avvolta dalle fiamme.

"Marie!" esclamai. "Niente più auto. Dobbiamo correre, te la senti?"

Mia moglie, alle mie spalle, mi strinse la mano. Girai il volto di lato e la guardai con la coda dell'occhio: ella annuì, tirò su col naso e sbatté le palpebre un paio di volte. Il mio sguardo accigliato scese sul suo pancione, al quinto mese di gravidanza. Strinsi i denti, digrignandoli.

"Allora andiamo! Qui non è più sicuro."

Strinsi la sua mano, feci un lungo respiro e mi gettai sulle strade della città, con in braccio mio figlio. Percorsi un viale alberato; i palazzi alti ai lati della carreggiata, le saracinesche abbassate dei negozi, le macchine incolonnate. Speravo che la gente non m'avesse visto, che fossi passato tra loro come una macchia scolorita, invisibile. Il rombo sommesso di un tuono mi fece sussultare, inciampare, fermare. Mi girai intorno, ansimando. Le persone si nutrivano di altre persone; alcune masticavano carne umana, altre si dimenavano al suolo, strisciando come serpenti. Denti gocciolanti di sangue, braccia fatte a brandelli, occhi ciechi.

"Mio Dio!" urlò Marie. "Cosa sta succedendo alle persone?"

La notte non portava con sé né luna né stelle, come se il cuore delle tenebre sovrastasse l'umanità. Ripresi a correre più forte di prima, trascinando nella corsa disperata mia moglie e mio figlio, ma la mente era vuota.

Ricordi di un mondo passato (Cartaceo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora