Capitolo 13 - Alla ricerca di Kephas (R)

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Roma - 6 giugno 2026
Kariot.

Guardai il grande orologio a muro dal quadrante illuminato: erano le quattro di notte. La stanza da letto era buia, la rete sotto a un materasso cigolava, le lancette ticchettavano secondo dopo secondo. Qualcuno ronfava a tratti, un altro stronfiava come un cavallo. Al di là della porta, i sotterranei di Palazzo Montecitorio erano silenziosi, di un silenzio angosciante. Ogni tanto sentivo degli strani cigolii, come se i macchinari, i computer e gli utensili da lavoro parlassero tra loro.

Nella stanza l'aria sembrava ferma; gocce di sudore pigiavano sulla fronte. Il collo della t-shirt sempre più umido e stretto. Non vi erano finestre, e respiravo grazie a piccoli condotti che collegavano i sotterranei al piano superiore. Alla base dei condotti, incastrate al soffitto, vi erano delle eliche nere che giravano senza sosta. Disteso sul mio letto, picchiettavo l'indice sull'anello di una bottiglia di whisky, poggiata sul mio petto da ore e ancora sigillata. Il lenzuolo stropicciato sotto ai piedi nudi.

"Kephas, dove sei?" continuavo a chiedermi nella testa. "Perché non torni?"

Chiusi gli occhi un istante e lo stomaco si strinse in una morsa, bruciando. L'indice fermo sulla bottiglia di whisky. Poi... i pensieri serpeggiarono veloci e giunsero nella mente, infilzandola. Kephas era lì, sotto la pioggia, con quel suo impermeabile giallo e gli incubi ancora addosso. Il suo cappello da cowboy grondava rivoli d'acqua che, insieme a quelli dell'impermeabile, si spezzavano sull'asfalto.

E io ero lì, fermo a fissarlo, mentre le sue palpebre si chiudevano lentamente, nascondendo quei suoi occhi castani con sfumature verdi che donavano profondità al suo sguardo. I capelli lunghi e ondulati attorno al volto, di un colore tendente al bruno, gocciolavano. La fronte spaziosa, le folte sopracciglia, il naso a punta larga, la barba incolta e la mascella pronunciata... di colpo anneriti dall'oscurità.

"In passato ho ucciso un bambino" mi aveva confessato.

Il suono della pioggia aveva riempito quelle parole di tristezza. Gli sguardi cupi e incrociati l'uno sull'altro. I ricordi più vivi che mai. L'avevo stretto a me, in un abbraccio affettuoso.

"Abbiamo tutti qualcosa da farci perdonare" ero riuscito a dire soltanto.

Le lancette del grande orologio mi riportarono nella stanza da letto di Palazzo Montecitorio. Erano le quattro e un minuto. Tornai a picchiettare l'anello della bottiglia con l'indice, mentre le gocce di sudore pigiavano sulla fronte. I pensieri erano immobili come l'aria, come il tempo, come l'angoscia nello stomaco.

"E se gli fosse successo qualcosa a causa mia?" pensai. "Dove sei finito, amico mio..."

La stanza da letto era sempre più buia, la rete di un materasso cigolava ancora, qualcuno ronfava fastidiosamente. Con un balzo scesi dal letto e poggiai la bottiglia di whisky per terra, insieme ai piedi nudi. La rete del materasso smise di cigolare di colpo.

"Matteo e Bartolomeo!" esclamai con disgusto, voltandomi verso di loro. "So che siete svegli."

Matteo emise una risatina sommessa.

"Scusa, Kariot" rispose Bartolomeo, con una vocina imbarazzata. "Non pensavamo che ci fosse qualcuno sveglio."

Digrignai i denti e, con un grugnito, dissi: "Se, se... Brutti porci".

Matteo continuò a ridere sotto le coperte. Bartolomeo non replicò e diede una gomitata al compagno. In quell'istante si svegliò Giovanni, mettendosi seduto sul letto.

"Cribbio!" esclamò. "Cos'è questo baccano? Che ore sono?"

Giacomo e Filippo sollevarono il busto uno dopo l'altro, sbadigliando.

Ricordi di un mondo passato (Cartaceo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora