Capitolo trentatré.

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Mi alzai lentamente sorreggendomi al muro. Pensavo di non farcela.

Sono tornata a casa. Ero sola. Sarei rimasta sola per lunghi mesi o addirittura anni.

Ogni canzone che mi veniva in mente era lei;

ogni gioia e dolore erano legati a lei;

ogni stanza parlava di lei;

ogni mio sospiro era per lei.

Entrai nella sua camera. Era disordinata come sempre, vestiti sparsi per il letto, ciabatte capovolte, armadio aperto, le coperte del letto ancora fuori posto e anelli sparsi sul comodino, insieme a due collane e tre bracciali.

Presi un suo anello. Me lo misi al dito. Poi mi appoggiai al muro e piansi. Piansi tanto.

Mi mancava già tantissimo, avrei voluto che fosse solo un brutto incubo. Avrei voluto urlarle di smettere di recitare, e di alzarsi da quello stupido letto.

Passarono ore. Non mangiai nulla. Mi addormentai per due ore e mezza sul suo letto che profumava di lei.

Al mio risveglio, notai la mia postazione e ricordai tutto.

Mi mancava così tanto da farmi levar il fiato.

La sera non mangiai nulla. Avvertii i miei genitori della morte di Emma e che il padre e la madre di lei sarebbero dovuti venire la mattina presto nell'ospedale di Montefiascone.

Mi sentivo così in colpa. Forse non saremmo dovute venire ad abitare in quel paese. Fatto sta che comunque lei non c'era più e non sarebbe più tornata indietro. Non potevo far niente.

Andai vicino ad un mobile con dentro il cassetto, delle fotografie. In molte raffiguravano io e lei insieme, che facevamo facce buffe e ridevamo.

Andai a dormire a mezzanotte.

Iniziai ad avere paura ad abitare in quella casa sola. Ero spaventata.

Chiamai Riccardo al telefono.

"Pronto?" rispose.

"Puoi venire?" gli dissi soltanto.

"Certo. Aspettami." mi disse chiudendo il telefono.

Lo aspettai davanti alla finestra. Arrivò e gli aprì la porta. Ci guardammo per un istante e poi ci unimmo in un abbraccio. Singhiozzai. Lui mi strinse a se.

«Proviamo ad andare a letto, che ne dici?» mi disse dolcemente.

Annui un leggero "si" e lo accompagnai al piano di sopra. Ero ancora in jeans e felpa, però mi stesi comunque con quelle robbe addosso.

Anche lui fece lo stesso nonostante si fosse portato il pigiama da casa.

Ci stendemmo sul letto che ci obbligò a stringerci perché era freddo e noi avevamo bisogno di scaldarci con le lenzuola ancora ghiacciate che coprivano il nostro corpo. Ci trovammo faccia a faccia. Gli sussurrai "scusa per ieri, scusa per tutto". Lui non disse niente.

Mi addormentai.

Lui non so, boh, forse.

So solo che il giorno dopo mi svegliai sola li sopra. Forse avevo sognato. Mi convinsi che Emma c'era ancora, che non se n'era andata. Sentii rumori di pentole sotto, erano le undici del mattino. Corsi di fretta di sotto.

«Emma!» gridai alla sagoma davanti a me che rivelò essere di un maschio.

Non avevo sognato. Riccardo rimase senza parole alla mia esclamazione mentre guardavano a terra.

«Scusa.» dissi «buongiorno.» continuai.

«Buongiorno a te, bella.» sussurrò avvicinandosi.

«Sono quasi le undici, ti va una di mangiare qualcosa?» mi chiese dolcemente.

«No.» dissi «ma che ci fai con le pentole in mano?» domandai.

«Alcune erano a terra sparpagliate insieme a frammenti di vetro.» disse.

«Devo essere stata io ieri sera, provai a cucinare qualcosa ma buttai il piatto sulla montagna di pentole per la disperazione.» dissi incespicando.

«Tranquilla.» mi disse «Siediti.» mi ordinò.

«Leiner è tornato a casa?» gli chiesi.

«Cinque ore fa.» rispose.

«Alle sei!?» rimasi stupita.

«Si, più o meno alle sei.» mi disse alzando le sopracciglia.

«Oh...»

Bussarono alla porta. Mi sistemai velocemente i capelli passando per il corridoio e aprì la porta.

«Buongiorno.» dissi abbassando la testa.

Erano i genitori di Emma, erano venuti a prendere le sue cose.

«La stanza di Emma è al piano di sopra, seguitemi.» gli feci strada mentre Riccardo guardava.

Andai al piano di sopra insieme ai suoi genitori, che in un ora e mezza raccolsero tutte le cose della ragazza.

Se ne andarono dopo un'altra mezzora, dopo aver parlato.

Era ora di pranzo. Riccardo fece venire gli altri ragazzi della band, così affrontavamo tutto insieme e secondo la psicologia di Francesco era "mille volte meglio che affrontare la situazione da soli". Forse aveva ragione.

Durante il pranzo (a base di semplicissimi panini) nessuno osò parlare.

Mangiai qualcosa, ma poco dopo mi sentii male e andai in bagno a vomitare.

Tutti si guardarono in quella stanza. Sentii Francesco dire qualcosa.

«Non ditemi che stanotte siete stati capaci a...» lo interruppe Riccardo.

«Non abbiamo fatto niente, smettila di fare lo scemo.» lo sgridò.

Poco dopo arrivai. Mi sentivo debole e male.

«Ciao ragazzi, ci si rivede. Io vado in camera.» gli dissi salendo per le scale.

Dear Jack- Ossessione.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora