My name is Alexander

170 15 9
                                    

Mi svegliai intontita in una stanza dal colore giallognolo: non era la stessa dove mi ero addormentata. Feci un attimo mente locale e mi sedetti sul letto: il mio bambino! Era salvo? Mi toccai la pancia, forse più piccola, e sentii un grande senso di vuoto. Sperai fosse solo una sensazione dovuta al digiuno. Mi alzai la maglietta, scoprendo un'enorme cicatrice segnare la mia pancia.
Mi avevano aperto la pancia per salvarlo, giusto?
Non per estrarre il suo cadavere, vero?
Eppure nella stanza non vi era alcuna culla o lettino o cose così.
C'ero solo io, il letto su cui mi trovavo e una sedia vuota:
Caleb, dove sei?
Premetti un tasto vicino al mio letto, che doveva servire per chiamare l'infermiera. Fece il suo ingresso nella stanza Caleb, con gli occhi rossi per il pianto.
No...sperai piangesse per sua madre.
«Amore, scusa se non sono stato qui quando c'era più bisogno» si scusò lui.
«Non preoccuparti, posso capire cosa hai passato. Ma cosa è successo? Hanno salvato nostro figlio? Dov'è?» gli chiesi.
Delle nuove lacrime riempirono i suoi occhi.
«Mi dispiace, è tutta colpa sua, io...» balbettò lui.
Una pugnalata al cuore.
Un forte pugno sul cranio.
Le maestose fiamme avvolgono il mio corpo.
Il mio bambino è morto.
Morto.
Per sempre!
Volevo non piangere, non gridare, ma lo feci. Caleb mi abbracciò, piangendo con me.
Avrei voluto strangolare la dottoressa che si era presa carico dell'operazione, ma non era colpa sua, l'unica colpevole ora aveva ricevuto la giusta punizione.
«C'è di peggio» disse, d'un tratto.
Cosa poteva esserci di peggiore della perdita di tuo figlio?
«Dopo questo "aborto", i medici hanno scoperto che sei rimasta sterile» mugugnò.
Ecco cosa c'era di peggio: non poterne avere altri.
Mi sentii peggio, ma dovevo pensare a Caleb: aveva sofferto così tanto per tutto e io non volevo nutrire ancora il suo dolore.
Dovevo essere positiva per entrambi.
Gli asciugai le lacrime sul viso.
«Non importa se non potremo averne altri tutti nostri, possiamo farne nostro uno che famiglia non ha» gli proposi, sperando di far accendere almeno un piccolo sorriso sul suo viso.
Così fu.
«Certo, amore; l'importante è che siamo ancora qui, insieme» sorrise lui, baciandomi le mani.
Quanto lo amavo.

--------------
Eravamo andati il giorno stesso all'orfanotrofio umano, dopo che mi avevano dimessa.
C'erano state varie discussioni sul nuovo bambino, ma alla fine avevamo optato per un maschio umano di massimo sei anni, cosicché sarebbe stato più facile per lui inserirsi nella famiglia.
Eravamo dell'idea che il nostro piccolo deceduto si sarebbe "reincarnato" nel bimbo che avremmo addottato.
Insomma, ne avrebbe fatto le veci, ma non come una sorta di rimpiazzo, come il vero e unico.
«Buongiorno, siete i signori Davis?» ci chiese la donna all'entrata. Aveva i capelli castani e ramati raccolti in uno chignon ordinato, nulla a che vedere col mio accumulo di capelli sotto l'elastico; dovevo andare per forza dal parrucchiere.
«Non siamo sposati» ammisi io, imbarazzata.
«Oh, certo, scusate. Ma non siete troppo giovani per prendere un bambino?» s'intromise la donna.
Io, a differenza di Caleb, avevo solo diciassette anni.
Sedici.
Quasi diciassette!
Mancano due mesi!
Sedici e tre quarti, allora.
«Io ho diciannove anni» rispose Caleb.
Eccone un altro che non contare!
Oh, andiamo, che vuoi che importi qualche mese?
Importa, invece! Tu non saresti ancora nata, quindi i diciassette li fai tra due mesi! Ne. Hai. Sedici.
Come vuoi!
«D'accordo, seguitemi» ci pregò la donna. La seguimmo per tutto quella casa enorme, sorpassando altre coppie e bambini scatenati.
«In base alla telefonata fatta prima da voi e alle richieste che ci avete fornito, abbiamo da proporvi pochi bambini» continuò lei.
Proporvi?
Siamo in un canile? Sono bambini!
La donna ci lasciò in uno degli splendidi giardini che contornavano la villa, dove vi erano cinque o sei bambini. Caleb fece conoscenza con un bimbo riccio, mentre io mi guardavo intorno. Notai un bambino dalla folta chioma rossa, con gli occhiali, seduto sullo scivolo, in completa solitudine, intento a disegnare o scrivere qualcosa sul taccuino che stringeva in mano.
Era così tenero.
Mi avvicinai a lui, il quale sussultò, per poi interrompere il suo lavoro e scrutarmi coi suoi occhioni azzurri. Sul suo viso vestito di lentiggini aleggiava un'espressione intimorita ma contemporaneamente curiosa.
«Ciao» lo salutai.
«Ciao» sussurrò.
«Io mi chiamo Acacia e tu?»
Il suo volto prese un colorito rossiccio.
«Alexander» rispose, mentre si aggiustava gli occhiali sul suo nasino all'insù.
«È davvero un bel nome. Quanti anni hai, Alexander?» gli domandai, sorridendo.
«Quasi sette» rispose, riportando il suo sguardo sul suo quaderno.
È il bambino giusto per voi: pure lui ha i vostri deficit.
Ma piantala!
Guardai il foglio che fissava e sorrisi alla vista di un bellissimo disegno di una casa.
Era davvero bravo a disegnare.
Già, disegna meglio di te, ahah.
Questa volta sono d'accordo.
«È la tua casa?»
Scosse la testa.
«È la casa che forse un giorno avrò»
Mi commossi un pochino: mi faceva davvero molta pena.
I bambini non si meritano di essere abbandonati, nessuno lo merita.
«E se ti dicessi che ne hai una?» gli sorrisi.
I suoi occhi s'illuminarono e le sue guanciotte piene si gonfiarono, lasciando spazio al sorgere di uno splendido sorriso.
«Aspettami qui» gli chiesi, mentre tornavo da Caleb.
Speravo solo che lui non si fosse innamorato di qualche altro bambino: non volevo spezzare il cuoricino di Alexander. Però era colpa mia, non dovevo promettergli ciò che non sapevo se avrei mantenuto.
«Quel bambino mi ha leccato!» esclamò lui, disgustato, indicandomi una testa riccia. Risi e poi gli parlai di Alexander. Per mia fortuna ottenni il consenso di Caleb, che andò a comunicare la nostra decisione alla signora che ci aveva accolti, mentre io lo dicevo ad Alexander, il mio futuro figlio.
«Buone notizie, piccolino: appena sarà possibile, verrai a casa con noi!» gli annunciai, indicandogli Caleb, già di ritorno.
Alexander mi abbracciò forte e poi fece lo stesso con Caleb, il suo futuro papà.
«La signora ha detto che tra il preparare i documenti e le tue cose ci vorranno due giorni, quindi ci vedremo giovedì» lo informò Caleb, venendo ringraziato dal sorrisone sul viso del piccolo.
«Prima che ve ne andate voglio dare questo a te, così mi conosci un po': ci sono le cose che mi piacciono e quelle che odio e altre cose» mi disse, porgendomi il suo quaderno pieno di disegni. Lo presi e poi salutammo Alexander, dandogli un bacino e qualche dolce buffetto sulle sue guance paffute.
«Presto saremo mamma e papà» mi baciò Caleb, una volta usciti dall'orfanotrofio.
Io sorrisi nuovamente e lo baciai a mia volta.
Finalmente!

Spazio autrice:
Capitolo molto lungo, eh?💕😃
Chissà come si troverà Alexander nella sua nuova famiglia...vampira, tra l'altro🙈

Bad BloodDove le storie prendono vita. Scoprilo ora