35. La resa dei conti.

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Ed ecco che la storia si ripeteva. Un urlo straziante di donna durante il corso della notte echeggiava nella sua testa, destandolo dal necessario riposo. Aprì gli occhi col fiatone insistente. Un altro incubo, si disse. Cercò Carley accanto a sé, ma non c'era. Restò immobile, chiudendo gli occhi, per riuscire a percepire anche il minimo rumore e analizzarlo come era solito fare, quando voleva riprendere sonno. Un fruscio entrava dalla porta sul retro. Sicuramente Carley andandosene aveva lasciato aperta la porta. Il ronzio di un moscerino infastidiva dal corridoio. E poi... cos'era quello? Affinò di più l'udito. Sbarrò gli occhi. Scostò feroce le coperte. Completò di vestirsi in 10 secondi. Uscì dalla porta. Era Carley.
- Jeffrey!!! Aiutooooo!-, urlava ormai con un filo di voce, accasciata contro il cancello.
Jeffrey si tenne dal corrimano delle scale e senza turbamento balzò di sotto con un solo salto. In guerra aveva affrontato altezze peggiori di quei 23 gradini. Aprì il cancello a mani nude, per poi prenderla tra le braccia e sostenerla. La analizzò. Svariati segni di colluttazione, camicia strappata, un'aggressione finita male? Lo escluse a priori. Sapeva perfettamente chi fosse la causa di tutta quella violenza. Serrò la mascella. Le mani gli pizzicavano incredibilmente.
- Lui... Io...-, balbettò Carley. La strinse a sé. Le gambe erano talmente molli di quanti colpi avevano ricevuto che sembravano rotte. Riusciva a tenersi in piedi constatò, ma non a lungo.

- Mi ha detto che non ha paura di te

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- Mi ha detto che non ha paura di te... che non devo permettermi di rifare ciò che ho fatto... che vuole anticipare il matrimonio... e che sono solo una puttana...-, Jeffrey era certo che ne avrebbe sicuramente avuta paura di lui, dopo quello che le aveva fatto e detto. Era così iroso in quel momento che non riusciva neanche a vedere gli occhi di Carley imbevuti di lacrime. Le pupille gli tremavano dalla rabbia incontenibile.

Lo aveva avvertito e se ne era fregato

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Lo aveva avvertito e se ne era fregato. Ora era giunta la resa dei conti. Non sarebbe scappato questa volta.
Si gonfiò il petto di determinazione e a passi pesanti andò a far conoscere il suo destino a Fabian. Carley lo tirava per un braccio gridando, ma non riusciva a sentirla. Fu trascinata con sé.
Non poteva pensarci. Non riusciva assolutamente a pensarci. Chissà cosa le aveva fatto. Con una rapida occhiata aveva compreso che almeno sulla schiena avesse usato un oggetto molto resistente e concavo contro di lei. Sarebbe morto. Non avrebbe avuto rimpianti, anche se era cristiano. Conosceva il comandamento: "Non uccidere.", ma cos'altro avrebbe dovuto fare contro Satana in persona? Aveva già "porto l'altra guancia", ma non era servito. Era fuggito, aveva mietuto altre vittime innocenti, aveva quasi ucciso lui e ora anche un angelo sceso in terra per la salvezza della sua anima. Non meritava niente. Non meritava perdono. Non meritava alcuna pietà. Non gli interessava se avesse dovuto dopo passare tutto il resto della propria vita in prigione. Lo avrebbe ripagato il fatto che lei era finalmente al sicuro e che lui non avrebbe fatto più male a nessun altro. Mai più.
- Ti prego! Non fargli niente, Jeffrey!-, piangeva Carley e lo implorava, appendendosi alle sue braccia, ma lui non era più costretto a moderarsi. Era un fiume di odio in piena.
- Avanti. Fatti vedere. Perché non fai a me quello che hai fatto a lei?! Ah?! Perché non te la prendi con uno della tua taglia.-, urlò sotto casa di Fabian. Essere più spregevole non l'aveva mai incontrato che fosse a tal punto insensibile. Un essere così irriconoscente, irresponsabile, menefreghista.
Avanzò ancora con Carley raggomitolata al suo braccio sotto le scale di marmo. Alzò lo sguardo e lo vide.
- Vieni, avanti! Fai a me quello che hai fatto a lei!-, non riusciva a contenere le parole, gli sgorgavano come il sangue che aveva già versato a causa sua.
- Non vedo l'ora!-, si delineò sul volto di Fabian uno sguardo altroché malefico.
- Carley, vattene.-, le sussurrò.
- Ti prego. Non voglio che tu mi veda così.-, insistette. Carley si sciolse dal suo braccio e andò verso il giardino a nascondersi. Non voleva andarsene.
- Pagherai per tutto il male che hai procurato a me, la mia famiglia e lei.-, Fabian arrivò di fronte a lui ghignando come suo solito.
- E tu pagherai per il male che hai procurato alla mia organizzazione e per esserti intromesso in questa storia...-, Jeffrey strinse i denti. Pensò a Carley, pensò a suo nonno, pensò a sua nonna, pensò a sua zia, pensò a sua zio, pensò ai suoi cugini, pensò ai suoi genitori, pensò a quelle milioni di vittime innocenti che erano state ferite o avevano perso la vita solo a causa dell'egoismo della persona che ora aveva davanti.
Lo colpì con un diretto al volto che riuscì a stordirlo momentaneamente. Fabian rise, asciugandosi il labbro insanguinato con il dorso della mano. Gli arrivò un suo calcio allo stomaco, ma fece di tutto per non sentirlo. Si sentiva le braccia pesanti, le vene pulsanti anche quelle delle tempie. Lo prese per il colletto e lo sbatté alla colonna da cui si dipartivano le scale. Odiava quella faccia, quell'aria di superiorità, quel ghigno insopportabile.
- Mi fai ridere...-, gli sputò, conficcandogli un coltello poco sotto le costole. Rimaneva sempre scorretto, come quando giocavano da bambini. Doveva sempre vincere barando e picchiava le sorelle che lo contraddicevano sulla correttezza del suo gioco. Finivano sempre per scontrarsi con le mani, perché la cosa principale che non sopportava del suo carattere Jeffrey era quando si azzardava a ferire una donna, chiunque ella fosse, se sua zia o una delle sue cugine. Ora lo avrebbe sedato definitivamente.
Dovette mollare la presa, liberandolo. La ferita era più profonda di quanto avesse creduto. Fabian gli calciò il petto. Si accasciò a terra, riscontrando difficoltà a respirare normalmente. Sperò che il coltello non gli avesse bucato un polmone.
Fabian lo prese per la gola, destabilizzandolo con un pugno alla tempia. Stava cedendo. Non poteva crederci. Avrebbe vinto ancora lui. Sentì il sapore metallico del suo sangue contrassegnare il labbro inferiore. La vista si appannava. Fabian non smetteva di colpirlo. Abbandonò la sua testa al pavimento e fu in quel momento che riuscì a vederla. Lì, tra le siepi. La ragione dei suoi sorrisi, della sua vita. La sua stella polare da cui sarebbe sempre ritornato. La nuvola su cui in guerra fantasticava di vederla portarlo con sé. L'aria di campagna che respirava da bambino pensandola. La ragazza per cui si era messo più volte in ridicolo. Il motivo per cui era andato in guerra, a vedere quanto era brutta la vita senza di lei. Il motivo per cui era andato in guerra, sperando di morire, perché una vita senza di lei non poteva mai essere chiamata vita.

Trovò la forza che aveva sempre cercato, quella ragione per cui suo nonno gli aveva detto di andare in battaglia solo per tornare indietro

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Trovò la forza che aveva sempre cercato, quella ragione per cui suo nonno gli aveva detto di andare in battaglia solo per tornare indietro. Non sentiva più le ferite, le cicatrici, le fratture. Prese la testa di Fabian e la sbatté contro il suo ginocchio. Si rialzò in piedi. Affondò una gomitata nel suo torace. Lo percosse con una sequenza infinita di pugni. Gli strinse il collo, sbattendolo con tutta la forza a terra. Fabian cercò di difendersi, prendendo un ramo, staccatosi da un alberello, ma si spezzò contro il braccio possente di Jeffrey.
Stava per finirlo, quando la sentì tirargli il braccio.
- Ti prego, basta! Andiamo via!-, restò a fissarla. Non capiva. Lasciò Fabian privo di sensi ricadere sul pavimento.
Cosa aveva fatto? Stava per trasformarsi nel mostro in cui Fabian voleva mutarlo da una vita. Carley lo portò via. Lo avrebbe visto allo stesso modo ora?

 Lo avrebbe visto allo stesso modo ora?

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