CAPITOLO QUATTRO

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E come in un film dove le immagini si susseguono, sfocate, veloci. In un momento punti di vista si sovrastano andando a creare un unica scena, un unico movimento.

È così che sarebbe stato se quel momento preciso della vita di Percy fosse stata trasmessa in televisione: la sua immagina sfocata, i colori blu e arancioni dei suoi vestiti, il nero dei suoi capelli, l'unico elemento distinguibile; lui che si girava a guardare dietro di se, continuando a correre. Silenzio.

Il tempo sembrava essersi fermato. Poi a un tratto tutto sembrò riprendere vita. Una corsa a rallentatore diventava un movimento fulmineo, i granuli di polvere si fondevano con il buio circostante, la  sovrumana quiete trasformava in urla e grida che laceravano i timpani.

Quando erano stati investiti dalle tenebre non avevano avuto la possibilità anche solo di urlare ai propri compagni di scappare, di rintanarsi.

Erano stati divisi e ora ognuno di loro correva senza una meta precisa con la sola speranza che tutto quello finisse come fosse arrivato. Di colpo. Come un fulmine che attraverso il cielo sereno d'estate, appare e scompare, preannunciando il temporale.

Forse  per questa ragione che gli uomini temono la morte: la fulmineità con la quale essa arriva, di colpo, strappandoti alla vita senza lasciarti il tempo di dire addio.

Forse  sempre per questa ragione che adesso correre era l'unica soluzione plausibile: non erano state le masse senza corpo, quelle nubi nere come la pece, quell'oscurità a spaventarli, bensì la loro improvvisa apparizione.

Come il mondo da limpido e chiaro si fosse trasformato in tenebre così repentinamente., provocando solo confusione e scompiglio. Percy stava correndo con il cuore in gola e i polmoni in fiamme.

Le lacrime pungevano i suoi occhi ciechi. Non riuscivano a vedere. Era tutto buio. Iniziò a capire come si sentissero le persone non vedenti, quella sensazione di impossibilità era peggio di una ferita mortale.

Volevano trovare Annabeth, voleva che tutto questo finisse, voleva che tutti stessero bene.

Ma l'unica cosa che sapeva fare era correre. Nel mentre  cominciava a chiedersi come potesse essere accaduto.

Di sicuro quelle non erano creature benigne, erano di sicuro mostri perciò le barriere che circondano il Campo- in funzione e molto più efficienti rispetto agli anni passati- avrebbero dovuto tenerli al confine, anzi allontanarli del tutto.

Ogni muscolo del corpo del semidio era stremato: Percy poteva immaginarsi le sue gambe chiedergli pietà, un unico momento in cui fermarsi e riprendere le forze.

Peccato che non c'era tempo di riposarsi. L'aria che si respirava era velenosa e corrodeva le vie respiratorie: ogni volta che Percy inspirava l'acido veniva iniettato nel suo corpo e lo indeboliva; i suoi passi diventavano man mano più insicuri, stanchi.

Si ritrovò a barcollare, cieco, nel vuoto. Percy si chiese se questa non fosse la sua fine. No, non poteva essere, si disse. Aveva affrontato di peggio: creature mostruose, dei antagonisti, i dio Tartaro in persona.

Non si poteva arrendere così facilmente. Raccolse tutte le forse che gli rimanevano, corse più veloce e acuì i sensi.

Olfatto, tatto, udito... anni di addestramento proprio per prepararlo a situazioni in cui la vista sarebbe venuto a mancare e doveva agire comunque.

La sua gola sembrò squarciarsi quando urlò: "Annabeth! Ragazzi! Dove siete?!" Sentì il sapore metallico del sangue in bocca. 

"Ragazzi!" la sua voce era flebile e si spezzò a causa del dolore.

CONTROLUCE-SolangeloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora