capitolo 3

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****Ginevra****

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****Ginevra****

Tolti gli allenamenti e gli incontri che risucchiavano gran parte del mio tempo libero e considerando che Emma era letteralmente scomparsa dalla circolazione, cominciai a passare le mie giornate a non far nulla a parte studiare il minimo indispensabile per gli ultimi esami del semestre. Passavo dall'apatia alla rabbia e le continue visite a Beatrice non mi aiutavano. Ogni volta che tornavo a casa, mi rinchiudevo nella palestra che mio padre e i miei zii avevano ricavato da quella che una volta era una vecchia stalla e mi ammazzavo di esercizi. Adrien, Daniel e mia cugina Valentina, che aveva appena sedici anni, mi trascinavano fuori da lì completamente stremata, ma poi ci fu l'epilogo e arrivò piuttosto rapidamente. Tre mesi dopo l'incidente di Beatrice, Emma si fece rivedere e la nostra breve chiacchierata fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Ero seduta nel giardino di casa quando Valentina la accompagnò da me, la vidi scrutarmi con attenzione, osservare il mio corpo con un'emozione in volto che somigliava alla pietà, e mi misi sulla difensiva perché odiavo essere compatita e il mio orgoglio non era ancora del tutto scomparso.

"Emma, ti trovo bene. A cosa devo la tua visita?" Le chiesi, facendo trasparire dal tono della mia voce un distacco che non provavo per niente.

"Vedo che a differenza di tutto il resto, la Regina di ghiaccio c'è ancora dentro di te." Rispose lei cattiva e senza darmi il tempo per ribattere continuò: "Sono venuta a salutarti, domani parto. Ho deciso di trasferirmi a Milano insieme ai miei, qui per me non c'è più niente. Avevo creduto di avere due migliori amiche, due sorelle, una mi è stata portata via dal fato, l'altra mi ha abbandonato nel momento in cui avevo più bisogno di lei. Sei sparita Ginevra, come se il dolore fosse solo tuo, come se io non avessi perso un'amica proprio come te. Non credevo di contare cosi poco, ma me ne sono fatta una ragione. Io non ce la faccio a restare qui, non voglio vedere te ridotta in questo stato e non voglio combattere con la tentazione di andare da Beatrice, me la voglio ricordare piena di vita e non con la morte negli occhi."

La guardai allontanarsi, ma prima che sparisse con tutta la rabbia che le sue parole mi avevano procurato le urlai dietro cosa pensavo di lei: "Tu mi dici che ti ho abbandonata, ma non mi pare che tu abbia risposto né alle mie chiamate tantomeno ai miei messaggi. Hai fatto in modo che tua madre mi mandasse via quando sono venuta a cercarti e ora ti permetti di venire qui ed accusarmi di non essere una buona amica, sai qual è la novità... non lo sei neanche tu. Non sei mai andata a trovare Beatrice, non sei venuta da me quando hai saputo che avevo lasciato il professionismo, non ti sei degnata di rispondere neanche ad una chiamata e ora ti permetti di venire qui a sparare sentenze, sai Emma... hai ragione non c'è più niente qui per te, vattene pure e sii felice, ma non farti più vedere perché giuro su Dio che sto facendo veramente fatica per non prenderti a calci nel sedere."

La sua risata sprezzante mi stupì e le sue parole mi fecero infuriare: "Andiamo, ma ti sei vista, se solo provassi a colpirmi ti metterei al tappeto con un solo gancio, l'era della grande Ginevra Conte è finita, hai lasciato che il dolore ti annientasse e adesso sei solo l'ombra di te stessa."

Rabbia, dolore e furia cieca si impossessarono di me, mi scagliai contro di lei e riuscii ad atterrarla; provò a difendersi ma fu inutile. Solo l'intervento di Adrien mi impedì di staccarle la testa, ma lei non demorse, aveva sempre voluto avere l'ultima parola e anche in quell'occasione non si risparmiò.

"Allora mi sbagliavo, sei riuscita ad ammazzare anche la Regina di ghiaccio! Hai perso tutto Ginevra, sei una fallita! Non riesci più neanche a controllarti, mi fai pena."

Andò via mentre urlavo a mio cugino di lasciarmi, con il sangue che mi impastava la bocca a causa del pugno che mi aveva sferrato, e mentre continuavo a dibattermi sentii l'adrenalina abbandonarmi, la vista si annebbiò e persi i sensi.

Mi risvegliai in ospedale, mia madre accanto a me scrutava con attenzione il mio volto. Nel suo sguardo c'era dolore, rabbia, delusione, un mix di emozioni di cui ero stata la causa, ma la peggiore di tutte era la stanchezza: quella che le impediva di aprire bocca e dirmi qualsiasi cosa, quella che avevo causato io in quei mesi.

Fu mio padre a spezzare il silenzio quando arrivò nella stanza insieme a zio Giulio, fratellastro della mamma e padre di Adrien oltre che medico, le sue parole e i suoi gesti quel giorno furono quelli di un padre che sa che non è più tempo di aspettare una reazione, ma che è arrivato il momento di agire.

Tolse il lenzuolo che mi copriva e apri l'anta dell'armadio che avevo in camera, mi sfilò il camice che indossavo tirandolo via dalla testa con un colpo secco, cosa che fece sussultare mia madre e pure me, incontrò il mio sguardo attraverso la superficie riflettente e con tono severo mi disse: "Ti ho dato fiducia, credevo avessi compreso le mie parole l'ultima volta che abbiamo parlato, ma evidentemente mi sbagliavo. In questi mesi ho aspettato di vederti reagire, tu invece, sei scivolata sempre più giù. Ora, guardati e chiediti cosa ne penserebbe Beatrice se ti vedesse così? È arrivato il momento di affrontare il tuo dolore Ginevra, di accettare che nella vita le persone che amiamo a volte ci lasciano. Devi imparare a trovare dentro di te la forza di andare avanti sempre e comunque e poiché tua madre ed io non siamo riusciti ad aiutarti in questo, da domani comincerai a vedere uno psicologo e ci andrai fin quando non ricomincerai a vivere e non avrai ripreso il peso che hai perso. Non so cosa tu avessi in mente piccola, ma da te una cosa del genere non me la sarei mai aspettata."

Il singulto di mia madre distolse l'attenzione di mio padre da me e se credevo che vederla in silenzio mi avesse spaccato il cuore, dovetti ricredermi perché guardarla piangere tra le braccia di mio zio mi spedì diretta all'inferno.

"Farò tutto quello che vorrete." Dissi a mio padre mentre tenevo lo sguardo fisso sulla schiena di mia madre scossa dal pianto convulso.

Non mi ero accorta di quello che stavo facendo alla mia famiglia, ero talmente concentrata sul mio dolore da perder peso senza accorgermene, non era stata una cosa intenzionale, era successo e basta. Fu compito di mio zio spiegarmi che ero svenuta perché lo sforzo fisico che avevo fatto durante la lite con Emma mi aveva causato uno scompenso ipoglicemico, quando mi chiese quando avevo mangiato l'ultima volta, volevo sprofondare, era successo più di trenta ore prima. L'avevo fatta grossa e stavolta non ero disposta a deludere ancora i miei cari, giurai che mi sarei ripresa e lentamente ci riuscii.

Le sedute con il dottor Sabatini, lo psicologo, furono utili e i miei genitori diventarono due abili sentinelle. Mia madre si accertava che mangiassi, mio padre che mi allenassi con moderazione, mi fecero assumere al consultorio di mia zia Sonia, un'amica di famiglia che faceva e fa l'assistente sociale e cui abbiamo affettuosamente attribuito l'appellativo di zia. In più, mio padre dopo anni di lezioni sull'arte dei tatuaggi mi fece iniziare a lavorare nel suo studio, dapprima affiancata da lui e Danilo, il suo socio e migliore amico e da qualche mese anche da sola.

Mi lasciarono libero un solo pomeriggio a settimana in cui potevo andare a trovare Beatrice e uscendo dal centro in cui era ricoverata, avevo appuntamento con lo strizzacervelli.

Pianificarono la mia vita riempiendo ogni buco, accertandosi che tenessi il passo, che non smarrissi nuovamente la retta via ed io non lo feci e ancora oggi cerco di non farlo, ma una parte di me è morta quel maledetto giorno con Beatrice.

Ho visto lo psicologo per quattordici mesi, ne sono passati altri otto da quando abbiamo finito le nostre sedute, ma ancora ogni mattina mi ripeto quella frase "Oggi è il giorno in cui ricomincerò a vivere", perché in realtà non l'ho ancora fatto; continuo a seguire lo schema che gli altri hanno stabilito per me, anche se ormai non mi stanno più dietro e credo abbiano ricominciato a fidarsi.

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