Prologo

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Dolore.

Una sensazione divenuta ormai fin troppo familiare al suo corpo, tanto da arrivare a chiedersi se non fosse normale provarla.

Dolore. Lo sentiva a tratti, per quei pochi minuti in cui riusciva a tornare lucido. In ogni singolo nervo del suo corpo scorrevano scariche di elettricità pura. Partivano dai polsi martoriati per poi esplodere davanti ai suoi occhi come fuochi d'artificio: luminosi e letali, senza il dovuto controllo. Pensare a come fosse finito in quella situazione, ecco ciò che gli faceva perdere il controllo sul proprio corpo. Ciò che dava via libera al dolore. E alla rabbia.

Si rannicchiò su se stesso, le ginocchia sbucciate tirate al petto e le braccia stese di lato, costrette ad aderire al pavimento tramite catene e anelli metallici. Quelle dannate manette. Erano di ferro freddo, pesanti e opprimenti. Gli stavano scavando la carne in profondità, corrodendo il suo sangue. Una buona metà di esso non sopportava la vicinanza del metallo benedetto, soprattutto se tenuto a contatto con la pelle. Era come veleno per un mortale. Come un acido che ti uccide lentamente. Se fosse stato un fae purosangue a quell'ora di lui non sarebbe rimasto altro che un inutile corpo senza vita. Invece stava ancora lottando contro l'oblio. La sua parte umana stava lottando per resistere all'inarrestabile desiderio di chiudere gli occhi. Oh, sarebbe stato semplice abbassare le palpebre, non rialzarle più. Sembrava così facile, così... liberatorio.

Riaprì gli occhi di scatto, fissandoli sul pavimento di pietra umida su cui aveva posato una guancia, disteso sul fianco sano. L'altro riportava ancora le ferite dell'ultima battaglia. Prese un respiro profondo e mosse piano le dita, intorpidite per la mancanza di circolazione sanguigna, mentre tentava di mettersi seduto in modo dignitoso. Perchè no, non poteva cedere. Mancava poco. Ancora pochi minuti e poi sarebbe stato libero, libero di andarsene da quella Corte infernale, da quella gente falsa nonostante non potesse mentire. Era stato un servo fedele per fin troppo tempo. Il migliore. Il più ubbidiente, il più sottomesso, il più forte. Nessun altro poteva vantare le sue stesse abilità, la sua scaltrezza e la sua conoscenza dell'Altroregno. Nessuno, nemmeno fra i Sidhe, era degno anche solo di baciargli i piedi. Eppure eccolo lì. Legato al suolo nella sala dei processi.

Sentì le labbra tirarsi in un sorriso di scherno. Percepì distintamente la pelle sottile stracciarsi come carta velina e il sapore del sangue caldo riempirgli la bocca. Era stanco, il ferro gli impediva di attingere Energia dalla terra o dal fuoco che scoppiettava intorno a lui. Si trovava al centro esatto di un cerchio. Un cerchio magico, formato da carboni ardenti, creato con lo scopo di tenerlo lì, fra la vita e la morte, in attesa della condanna. Come se fosse stato in grado di muoversi, ferito e incatenato.

La condanna. Era stato accusato ingiustamente, questo era il motivo principale della sua ira. Non aveva mai fatto caso all'invidia dei suoi simili prima di quel giorno. Non gli avevano mai dato modo di sospettare di loro. Come potevano invidiare, in fondo, una vita come la sua? Non sentivano i pettegolezzi delle cortigiane? Non sapevano, forse, cosa era costretto a subire da anni? Evidentemente non importava, questo. Importava solo il suo nome e ciò che comportava. Ma ora aveva imparato la lezione. Aveva capito che la fiducia è qualcosa da tenersi stretta, da non donare tanto alla leggera. Aveva capito che la gente è più crudele di quanto sembri. Un cuore pieno d'ira è capace di cose impensabili, azioni immorali impregnate di malvagità. Forse era tardi per rendersene conto, per capire quanto era stato ingenuo, ma si ripromise che non sarebbe ricaduto mai più nello stesso errore. Aveva sbagliato fin troppe volte nella sua vita. Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Si rigirò fra le catene, sibilando a ogni contatto col metallo mentre cercava di mettersi almeno in ginocchio. Non aveva nemmeno le forze per sorreggere il capo, tanto che il mento andò a scontrarsi contro il suo petto. Le manette strisciarono sulla pelle nuda delle braccia, salendo verso l'alto con i suoi movimenti e producendo uno sfrigolio improvviso. Il ragazzo stavolta non riuscì a trattenere un grido di dolore. Restò piegato in avanti, appoggiato sui gomiti e sulle ginocchia. Le sue ali si mossero piano, per poi tornare a posarsi sulla sua schiena, troppo stanche per spiegarsi del tutto. Ancora qualche ora e sarebbe morto, se lo sentiva. Cominciava a vedere sfocato, i contorni spigolosi della sala, gli arbusti coperti di spine che circondavano il trono, tutto si stava facendo meno nitido e spariva nel buio. Aveva la bocca secca e impastata. Era questo che si provava a morire? Un lento e doloroso abbandono dei sensi?

Il Regno dell'IngannoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora